Quando Roma Città Aperta di Roberto Rossellini, girato mentre la seconda guerra mondiale seminava ancora bombardamenti e stragi nel Nord Italia, venne distribuito nelle sale cinematografiche, in un paese distrutto sia fisicamente che moralmente, fu accolto tiepidamente da molti critici italiani, ma si rivelò, inaspettatamente, un successo sia in Italia e, in maniera ancora più sorprendente, negli USA. A New York in particolare si formavano lunghe code davanti ai teatri in cui veniva proiettato. Come disse il regista Otto Preminger, la storia del cinema si divide in due parti: prima e dopo Roma Città Aperta.

Per molti quel film rimane la più alta espressione del Neorealismo, il fenomeno culturale italiano più significativo del XX secolo, e il primo caso in cui il cinema, l’ultima arrivata tra le arti, fece da traino per tutte le altre: dalla letteratura, coi romanzi di Pavese, Pratolini e Fenoglio alla pittura di Guttuso e Vedova. Il cinema del Neorealismo non fu mai una scuola e nemmeno un movimento in senso tradizionale: i suoi registi mantennero sempre una forte impronta individuale e i loro film rimangono capolavori ineguagliati proprio perché, nonostante la comune capacità di rappresentare la realtà senza filtri e senza retorica, mantengono fortissime caratteristiche soggettive.

Ma la forma d’arte che forse più di ogni altra si intreccia con la storia, il successo e il declino del Neorealismo cinematografico è la fotografia. Ed è proprio alla fotografia di questo periodo che è dedicata una serie di iniziative che stanno coinvolgendo l’intera New York. L’evento centrale, con quasi 180 fotografie, è la mostra NeoRealismo: The New Image in Italy, 1932–1960, presso la Grey Art Gallery e la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University, ma chi si trova in città in questo periodo troverà anche mostre in gallerie commerciali e un assaggio delle recenti acquisizioni nella collezione permanente del Metropolitan Museum, oltre a tavole rotonde e proiezioni. Le mostre, organizzate da Admira e curate da Enrica Viganò permettono di avere una visione d’insieme del contributo che la fotografia ha dato al pieno sviluppo del Neorealismo. Anzi, più che un contributo direi che si può parlare di uno scambio produttivo, di un dialogo che ispirava a vicenda registi e fotografi che spesso ricoprivano entrambi i ruoli (emblematico il caso di Lattuada).

Anche grazie al riuscito allestimento, questo dialogo è evidente, soprattutto in alcune sezioni, come quella dedicata all’infanzia: una serie di scatti in cui gli sguardi e gli atteggiamenti di bambini costretti a crescere troppo in fretta riflettono in maniera speculare quelli dei ragazzini protagonisti delle pellicole neorealiste da Paisà a Ladri di biciclette. L’altra sezione particolarmente interessante è quella dedicata alle riviste, come Cinema Nuovo, che ebbero il merito, di fondare il fotogiornalismo (un modo radicalmente nuovo di fare informazione) e che si proponevano di fornire al cinema storie, idee e immagini.
Martin Scorsese, forse l’artista americano che meglio conosce e che più si è ispirato al Neorealismo conclude la sua introduzione al catalogo della mostra principale con questa brillante definizione: “il Neorealismo è difficile da definire. È un impulso, un momento. È un processo di guarigione e reintegrazione. È una fonte di ispirazione, una fontana che non smette di zampillare”.