
Ai lettori de La Voce di New York nomi come Fashion Institute of Technology ed Eugenia Paulicelli non risultano affatto nuovi. L’FIT — eff ai ti, la pronuncia corretta per noi italiani all’estero — è un college SUNY rinomato tanto qui quanto all’estero, la cui offerta accademica include, e al contempo trascende, moda e tecnologia, abbracciando arte, design, business e proponendo oltre 40 programmi di laurea che spaziano dalla fotografia alla progettazione giocattoli, al marketing per la cosmesi. Campus a Chelsea, nel cuore di New York, un nuovo edificio in fase di progettazione, l’FIT vanta al proprio interno anche il Museum at FIT, l’unico museo di New York dedicato interamente all’arte della moda.
Tra i tanti dipartimenti, quello di Lingue e Culture Moderne, diretto dalla Chair Isabella Bertoletti, conta su uno staff affiatato ed entusiasta che opera alacremente per allacciare legami non solo interdisciplinari ma anche fra il mondo accademico e quello del lavoro.
Tutto questo lo si afferma con cognizione di causa: lavorando in qualità di Adjunct Professor presso il Dipartimento di Studi Italiani, abbiamo avuto modo di osservare da insider le energie investite dall’organico in tal senso. E abbiamo anche dati empirici che comprovano questo successo — sperando così di fugare ogni sospetto di parzialità da parte nostra. In un momento assai infelice per lo studio della lingua italiana in America, dove i numeri degli iscritti ai corsi crollano in tutti i grossi istituti universitari americani, l’FIT, nel triennio 2013-2016, ha registrato un incremento delle iscrizioni pari al 22,5%.

Quanto a Eugenia Paulicelli, risultiamo legate anche a lei, per via de La Voce di New York, dove Eugenia è nota per la sua rubrica Fashionology. Il piacere con cui scriviamo questo articolo pertanto è duplice.
Un punto di riferimento, oltreché di contatto — e da contattare — quando si parla di moda nell’accezione più ampia possibile, Paulicelli è Professore Ordinario al Queens College e al Graduate Center, City University of New York, e Direttore del Programma di Fashion Studies che ha fondato. Insegna cinema, letteratura e arti visive, Rinascimento, Women’s Studies, moda, e cultura del Made in Italy.
Nella giornata di venerdì 4 maggio il Dipartimento di Studi e Lingue Moderne dell’FIT e la Prof Paulicelli hanno unito le forze, dando vita a Made in Italy in the 21st Century, un simposio sul futuro della moda in Italia, il cui programma ha previsto un keynote della stessa Paulicelli, seguito da una tavola rotonda con docenti dello staff accademico FIT, tra cui Andy Liu (Assistant Professor, Fashion Design), Pamela Ellsworth (Chair, Global Fashion Management), e Jeannine Scimeme (Adjunct Assistant Professor, Accessories Design).

Per avvicinare il discorso accademico a quello professionale, è stato invitato all’evento anche il team T-Project, realtà toscana con showroom newyorkese nel Garment District, che promuove l’eccellenza del Made in Italy attraverso la produzione di prodotti in pelle, accessori moda, filati, fungendo da ponte tra i designer americani e la mano d’opera specializzata in Italia.
Il simposio è stato possibile grazie al lavoro di Rebecca Bauman ed Erica Moretti, entrambe Assistant Professor presso il Dipartimento di Studi Italiani, con la supervisione della chair Bertoletti.
La moda è una cosa seria, oltre a essere il titolo di un testo di Paulicelli (2016), avrebbe potuto fare da colonna sonora teorica all’intervento della studiosa — Made in Italy in the Future Tense: Fashion, Cultural Heritage, Sustainability — e al simposio tutto.


Uno dei primi punti che la professoressa mette in chiaro è la necessità di andare oltre lo stereotipo della moda come fatto frivolo, superficiale — una posizione che sosteniamo con veemenza. “La moda va studiata in relazione a tante altre discipline. E’ una terra privilegiata per capire le culture. E questo approccio trasversale, trans-culturale, ha preso forma, nel 2016, in Fabric of Cultures: Objects, Memory, Technology/Systems in the Making, un programma di ricerca supportato dai Fashion Studies del CUNY e dal Dipartimento d’Italiano del Queens College, e risultato da uno studio iniziato circa dieci anni fa sul rapporto tra i tessuti e gli abiti delle diverse culture, dove si è osservato come certe forme e certi motivi fossero ripresi in epoche storiche, contesti geografici e culturali differenti”, spiega Paulicelli, per poi soffermarsi sulla mostra tenutasi all’Art Center del Queens College dal 5 ottobre al 15 dicembre 2017.

“La mostra ha raccolto artisti, designer, studenti del CUNY e comunità del posto per riflettere sull’arte della manifattura, dell’artigianato e della tecnologia nel mondo globalizzato di oggi, considerando il Made in Italy in un contesto transnazionale e in conversazione con altre culture, tradizioni e tecnologie. Pensando la moda attraverso gli oggetti, la mostra si è posta l’obbiettivo di coinvolgere nella discussione il pubblico e l’accademia, e creare nuovi contatti tra produttori e consumatori”.
La Professoressa ci presenta alcuni articoli inclusi nella mostra. “In esposizione avevamo il cosiddetto Tanagra Dress, un abito di Rosa Genoni realizzato da Christina Trupiano, studentessa CUNY”.
Stilista, sarta e attivista pacifista, Rosa Genoni disegnò l’abito nel 1908, e lo indossò in occasione della sua partecipazione come unica rappresentante dell’Italia al Congresso internazionale delle Donne contro la Guerra che si tenne all’Aja, nel 1915. Nelle sue linee morbide e comode — contrariamente a quant’era previsto per l’abbigliamento femminile dell’epoca, tutto corsetti e gancetti — l’abito scrive un nuovo ruolo della donna nella società, impegnata e femminista. Un vestito che non è solo un vestito: è un gesto politico.

“Volevamo vedere l’abito prendere vita”, aggiunge Paulicelli. “Quindi abbiamo incaricato Massimo Mascolo e Claudio Napoli di realizzare un documentario, ed è stata un’esperienza fantastica! Il cinema ha aggiunto un livello in più, ha aggiunto la temporalità alla moda, combinando movimento e ritmo. In parte il risultato, Dress in Motion – The Tanagra Dress Reframed, è vera e propria video arte, ma abbiamo comunque mantenuto l’intento di documentare la realizzazione del vestito”.
Un altro abito su cui Paulicelli si sofferma è il Peace Dress che la stilista Silvia Giovanardi ha disegnato dopo aver visitato Hiroshima. E qui la professoressa passa a investigare il lato etico dietro la moda. “Etica ed estetica sono inseparabili. Così come moda e manifattura — una delle industrie, quest’ultima, più sporche al mondo. Dobbiamo porci sempre la domanda ‘di chi sono le mani che hanno reso possibile questo abito?’”
A questo proposito, ci sono realtà che lavorano per proporre un nuovo concept di sostenibilità nella moda — in linea con gli obbiettivi di Fashion 4 Development e abbracciato già da molti stilisti, fra cui GENNY con la “carta d’identità” applicata al capo d’abbigliamento, e da Simone Cipriani, fondatore di Ethical Fashion Initiative.
Tiziano Guardini, il designer italiano che utilizza tessuti naturali e materiali ecosostenibili, è uno degli

esempi citati da Paulicelli. “Vincitore del Franca Sozzani GCC Award for Best Emerging Designer, e incluso nella Milan Fashion Week lo scorso febbraio, Guardini ha condiviso con noi le fasi del suo lavoro, estrapolando da materiali 100% naturali delle creazioni meravigliose, impalpabili, leggerissime”.
Nell’ottica di una moda green e fair, Paulicelli cita anche Orange Fiber, una start-up basata su un nuovo tessuto eco-sostenibile ricavato dagli scarti delle arance siciliane, una ricetta colta al volo da Ferragamo, che con quel tessuto ha realizzato una collezione ad hoc. “Perché il Made in Italy deve significare innovazione, creatività e tecnologia per poter essere credibile ed esportabile non solo come idea ma anche come prodotto”, commenta Paulicelli, definendo il Made in Italy “un luogo simbolico, che si fa transnazionale e che porta il locale iscritto nel globale. E l’abbigliamento nello specifico, che è da collocarsi su una mappa emotiva, non può prescindere dall’etica”.
Eugenia conclude il suo intervento su una citazione di Kant. “Secondo il filosofo le mani erano le finestre della mente. Dobbiamo lavorare tutti verso il cambiamento. Che è nelle nostre mani”.

All’intervento di Paulicelli è seguita la tavola rotonda, un’occasione per i docenti FIT di condividere le loro esperienze con l’artigianalità italiana nei loro viaggi-studio in Italia, come quello presso il Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale a San Miniato, oppure a Borgo Cashmere di San Lorenzo, Firenze. Del resto già nel 1986 l’FIT aveva capito che la collaborazione fra Italia e USA in questo senso era imprescindibile, e aveva partecipato alla nascita di Polimoda a Firenze in partnership con Emilio Pucci, del noto brand, e con i Comuni di Firenze e di Prato — se ne occupò anche il New York Times. Una collaborazione a cui si è poi aggiunta anche quella del Politecnico di Milano.

Il simposio è stato chiuso dalle prof Bauman e Moretti sulle strategie didattiche per impiegare la moda nell’insegnamento della lingua italiana. “Il Museo dell’FIT è una fonte di ispirazione dove gli studenti possono ammirare abiti iconici di stilisti altrettanto iconici come Prada, Giorgio Armani, Dolce e Gabbana — imparando anche a pronunciare correttamente la ce di ‘Versace’ e la gio di Giorgio! — ma

anche nomi le cui creazioni si collocano fra moda, design e arte, come Alberto Guardiani, oppure Lawrence Steele, americano ma ‘italiano’ d’adozione e per professione, con cui possiamo ricollegarci al discorso della transnazionalità della moda”, commenta Rebecca Bauman.
“La moda ci serve anche come strumento per insegnare la lingua e la grammatica. Chiedendo a uno studente di descrivere ‘la storia di un capo d’abbigliamento’”, ci spiega Erica Moretti, “gli permettiamo di esercitare passato prossimo e imperfetto. Oltre naturalmente, a favorire l’ampliamento del lessico”.
Visti tutti gli ambiti toccati dal simposio — moda, arte, design, innovazione, tecnologia, sostenibilità, etica, lingua e studio della lingua — e tutti i fili che tessono la trama complessa e affascinante del Made in Italy, applaudiamo sia l’iniziativa FIT-Paulicelli — la prima di una lunga serie, come ha auspicato la Chair Bertoletti in apertura — sia Eugenia Paulicelli come scholar, per essersi impegnata — impuntata, anche, crediamo — a sfatare un falso mito duro a morire.
La moda è decisamente una cosa seria.
