L’equinozio non è ancora arrivato ma a New York la neve che si era ammucchiata negli angoletti si è sciolta e la morsa di gelo che aveva tormentato la città fin dai primi dell’anno è scomparsa. È un’avvisaglia di gentilezza climatica che in arte sembra trovare riscontro in alcune mostre minori ma tutte molto raffinate e nostalgiche, di cui voglio citarne due che si svolgono, per combinazione, in una stessa zona di Manhattan, accanto al Central Park.

Così al Jewish Museum, tutto rinnovato da una lunga ripulitura sull’orlo nord-est del grande giardino si celebra la riapertura con una riorganizzazione delle sale fondata sul criterio di dare uguale spazio ai classici e agli artisti giovani e giovanissimi di ambedue i sessi. Per esempio accanto a una squisita tela del grande impressionista franco-danese di famiglia ebrea Camille Pissarro, ‘Le portail de l’église de St. Jacques à Dieppe” è stata collocata una scultura dell’artista ebrea Arlene Schechet nata nel 1951 a New York dove tuttora vive, divenuta famosa per la sua capacità di comprimere insieme nelle sue rappresentazioni concettuali presente e futuro. Oggetto della scultura è un valigia semiaperta da cui spuntano un paio di candelabri. “E’ tutto quello che riuscì a portare dalla Bielorussia mia nonna quando fuggì in America nel 1920”, spiega l’artista. Una coincidenza di un certo interesse è che in una mostra personale dell’artista multimediale romano Fabio Mauri scomparso pochi anni fa, anche lui ebreo, che rimarrà aperta fino ai primi di aprile alla galleria Hauser and Wirth nella parte bassa di Manhattan, mostra che tuttavia ripete totalmente una selezione già presentata tre anni fa, uno degli oggetti esposti è la ricostruzione di una valigia; ma questa in pelle, un’allusione agli oggetti di pelle umana fabbricata dai sadici guardiani di Auschwitz.
In un’altra sala del Jewish Museum richiama attenzione per un suo innovativo uso del colore messo al servizio della psicologia dei personaggi una nuova tela di Nicole Eisenman, pittrice franco-americana nata nel 1965, che rappresenta una famiglia riunita nel Seder, il tradizionale pranzo simbolico ebraico. L’opera scintilla di buonumore, ma accompagnato nei volti degli anziani da una sottile malinconia.

Uscendo da questo museo superate verso sud una decina di isolati costeggiando il parco, girate l’angolo e vi ritroverete davanti al Metropolitan Museum. Qui si è appena chiusa, nelle gallerie del secondo piano, una brillante retrospettiva di David Hockney, mentre si è inaugurata nell’ala dell’arte americana dal titolo “Thomas Cole’s Journey – Atlantic Crossing” che rievoca, facendo leva su uno degli artisti anglo-americani del primo Ottocento, Thomas Cole (1801-1848), meno noti in Europa, il fertile scambio di idee pittoriche tra la Gran Bretagna, l’Italia e gli Stati Uniti nella prima parte dell’Ottocento. Emigrato con la famiglia dall’Inghilterra negli Stati Uniti a diciassette anni e praticamente autodidatta, Cole aveva superato nuovamente l’Atlantico una dozzina di anni dopo per compiere un vasto giro dell’Inghilterra dove aveva preso coscienza dell’opera di Constable e di Turner. e giungere poi a Roma e rimanervi per quasi un anno (1831-1832), prima di ritornare in patria. Risultato di queste esperienze sono alcuni paesaggi di un vivissimo cromatismo, tra cui “The Oxbow” (un’ansa del fiume Connecticut, in un punto molto simile al Tevere serpeggiante) e “The Course of Empire” o evoluzione di un impero, vasta rievocazione storica che prelude alla narrativa dominante nel primo movimento di pittura chiaramente americano (la “scuola dell’Hudson”, il fiume che bagna New York).