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November 13, 2017
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Marco Papa, “il cavaliere azzurro” dell’arte che si racconta a Favignana

Intervista al poliedrico scultore che ha presentato a Favignana, nello stabilimento dell'ex Tonnara Florio, la sua retrospettiva

Laura BerciouxbyLaura Bercioux
Marco Papa, “il cavaliere azzurro” dell’arte che si racconta a Favignana

"Meta Gondola Fisica Redentore", Marco Papa

Time: 6 mins read

Tra performance e viaggi virtuali, la retrospettiva “Disegno Realtà-Drawing Reality” di Marco Papa, poliedrico scultore e designer, sbarca a Favignana nello stabilimento dell’ex Tonnara Florio, con oltre duecento opere, in mostra dal 3 novembre 2017 al 30 settembre 2018.

Inaugura la retrospettiva, l’approdo della scultura “Meta Gondola Fisica Redentore”, realizzata da Marco Papa in fibra di carbonio, lunga 12 metri e pesante 330 chili, varata lo scorso 15 luglio nel bacino di San Marco a Venezia, in occasione della Festa del Redentore. Al suo interno, la seduta in bronzo raffigurante il pugile statunitense Mike Tyson in una posa che omaggia “Il Pensatore” di Auguste Rodin. Tra le opere più suggestive di Marco Papa, “Black Gene”, la scultura dedicata a Leroy Johnson, Gene Anthony Ray, star di Fame, che Papa incontra dopo lunghe ricerche. Spenti i riflettori dorati di Fame, la serie cult degli anni ’80, Gene Anthony Ray, talentuoso attore ballerino di Harlem, muore il 14 novembre del 2003 per infarto cerebrale.

La Gondola a Favignana, in Sicilia

A Favignana hai inaugurato la retrospettiva con uno sbarco particolare…

“Sì, con la Gondola del Redentore, che abbiamo varato il 15 luglio al bacino San Marco a Venezia, nella notte della Festa del Redentore dove ho ripreso in realtà “VR” lo spettacolo pirotecnico della festa, spettacolo che si vede indossando le maschere in “VR” a bordo della meta gondola. È un viaggio nel tempo e nello spazio, ed è la metafisica che ci porta in questa dimensione con questa scultura funzionante”.

Tra le tue opere, una scultura e una storia, quella di Gene Anthony Ray, il Leroy Johnson di Saranno Famosi...

“La scultura si chiama Black Gene, appartiene al Trilogy on The Verge. Ritrae Gene Anthony Ray, alias Leroy Johnson di Saranno Famosi, il ballerino prodigio. La scultura è in granito che io chiamo afroamericano: è granito nero dello Zimbawe, perché la maggior parte dei grattacieli americani sono stati ricoperti da questo granito negli anni ’80 ’90. La scultura pesa 500 chili, è scomposta in 11 pezzi che hanno dei fori all’interno dove passa una fune che in tensione, ricompone il corpo e quel passo di danza di Gene Anthony Ray, la “spaccata” in aria”.

L’incoronazione di Mike Tyson

Perché hai scelto Gene Anthony Ray?

“Il progetto nasce nel 1999 quando una notte a Roma, dormo in una stanza, ho una visione notturna e vedo una stanza rosa shocking da cui emerge un ballerino, un uomo di colore con le trecce. La mattina ne parlo con i proprietari della casa che mi ospitava, vedo nei loro sguardi una sorta di stupori e mi dicono che in quella stanza aveva dormito Leroy. Da lì comprendo che era il soggetto perfetto per affrontare la ricerca sul tema del successo e del fallimento in relazione alla nostra società. E mi metto a seguire le tracce che aveva lasciato. Per un anno e mezzo lo cerco in tutta Italia ma ero sempre in ritardo di qualche mese”.

Ti sfuggiva?

“Sì. Viveva in uno stato di abbandono, aggrappato a persone che lo volevano aiutare ma che non avevano gli strumenti  per poterlo seguire in questa corsa disperata. Leroy viene in Italia, ospite di una trasmissione, ci rimane vagando da una casa all’altra cercando di sopravvivere. Dopo un anno di ricerche, tra la Calabria, Roma, Milano, fino a Venezia, ho perso le sue tracce”.

Una ricerca estenuante…

“Avevo quasi rinunciato. Metto un annuncio su una rivista d’arte, con un disegno e un testo. Dopo due mesi, una persona che mi dice che Gene Anthony Ray aveva letto il mio annuncio e voleva incontrarmi. L’ho raggiungo negli States ma lì incontro non più l’icona che ancora avevo in mente ma un uomo di 41 anni, con evidenti segni di debolezza, fragilità e diversi problemi. Quando sono arrivato a lui non aveva più problemi di alcool o di altra natura, ma era messo davvero male. Il progetto inizia nel 1999, Gene Anthony Ray muore nel 2003 ed io realizzo la scultura Black Gene. Esce anche il mio libro “Dancing on the Verge” edito da una casa editrice presente sia a Milano che a New York: più di una volta mi hanno presentato delle sceneggiature per trasformare questa esperienza in un film, in un docufiction. Non ho mai aderito a questi progetti perché erano esageratamente drammatici, visionari o troppo pop. Superficiali”.

Gene Anthony Ray

Perché ti sei appassionato alla sua storia?

“Ai tempi ho fatto sforzi disumani, chiedendo alle persone che ho coinvolto in quest’opera, di starmi vicino economicamente e professionalmente per il progetto. Molti di questi erano disturbati e scandalizzati dalle mie richieste, mi dicevano: “Marco perché stai dietro a questo ballerino per quanto talentuoso? Lui ha sbagliato, non ha saputo tenere il livello di notorietà che aveva e non ha saputo proteggere il suo talento. Lascia perdere questo negro fallito, gay, concentrati sul tuo lavoro perché il mondo dell’arte è spietato”. Ai tempi avevo poco più di 30 anni. Spiegavo loro che avevano ragione, che il discorso era molto contemporaneo e molto concentrato sulla realtà ma l’arte non lavora su questi registri, non ha tempi così brevi. L’arte è eterna e le cose si fanno per coloro che verranno. Questa installazione prevede il coinvolgimento del pubblico, a Favignana erano in 50 i ragazzi che tiravano la fune fino a realizzare “la spaccata in aria” del ballerino di Fame. Ai tempi durava mezz’ora invece chi era lì a tirare la fune durò 4 ore e mezzo finché il custode non dovette chiudere lo spazio. Più dura la performance più sono contento.”

Che legami hai con gli Stati Uniti?

“Ci ho vissuto diverse volte, soprattutto per il progetto Black Gene. Vorrei donare questa scultura ad Harlem dove Gene Anthony Ray è nato e cresciuto e si è fatto conoscere per questo talento selvaggio”.

La performance Black Gene a Favignana

Perché hai scelto la Sicilia per le tue opere?

“Ho avviato da anni un’attività di rivalutazione del territorio: pulivo le spiagge del trapanese, recuperavo cani dal territorio per portarli al Nord. Due dimensioni che mi hanno sempre colpito: la decadenza del territorio, che mi ha sempre dato fastidio e che, se non strutturavo con questa azione coinvolgendo lo stesso territorio, era come scavare nell’acqua. Ho fondato l’associazione “L’uomo sulla Terra” in collaborazione con Courtesy Fratelli M., che spero possa diventare una fondazione, e ho avviato il progetto Al di Là del Mare che coinvolge il Polo Museale di Trapani e Marsala. Il prossimo anno dovremmo essere anche nel Museo del Satiro danzante, il Museo Pepoli a Pantelleria, con progetti di artisti che l’associazione invita, che dovrebbero dedicare una o più opere, o un pensiero per un intervento che non sia di saccheggio o di apparenza ma di relazione e che possa, sensibilizzare sia le persone sul posto che non si rendono conto della bellezza che hanno, sia le persone che vengono da fuori che dovrebbero soffermarsi di più e apprezzare questa meravigliosa terra”.

Chi sono i tuoi Maestri?

“Bisogna sempre prendere i grandi maestri. Il mio lavoro spazia dalla scultura al disegno classico, alle installazioni video, per arrivare a progetti che sono più da ingegneri che da inventori. Leonardo è all’apice dei miei riferimenti così come Caravaggio. Rispetto ad oggi, la dimensione è più difficile: stiamo vivendo un’illusione della velocità, della semplicità e della tecnologia. Ci stiamo facendo ingannare perché ci è entrata così rapidamente che ci sta influenzando enormemente. L’arte subisce le conseguenze: se non apporta dei contenuti in tecniche e linguaggi, rischiamo di fare cose senza un senso, senza una struttura”.

Una delle opere di Marco Papa

Quali sono le conseguenze?

“Per me l’arte contemporanea è molto fragile, ha un pubblico molto forte che non si confronta più con la vita, e che è forte solo economicamente. Deve risolvere delle esigenze effimere di immagini che vengono richieste oggi mentre in passato, i maestri, con il loro saper fare, hanno introdotto valori etici ed estetici all’interno di opere con importanti commissioni, con delle esigenze specifiche che avevano dei codici. Nel tempo questi codici li abbiamo persi. Se oggi l’artista non ha la capacità di inserire quei valori etici ed estetici che arrivano con l’umiltà e il saper fare, avremo scatole vuote e belle perché con il tempo verranno ridimensionate, il tempo è giustiziere e falcia tutto. I collezionisti di un tempo erano persone molto colte. Oggi arrivano molti collezionisti da Paesi senza che essi sappiano chi era lo stesso Warhol e vogliono comprare arte e il mondo dell’arte li segue”.

Quindi?

“Con questa retrospettiva che ho fatto a Favignana senza avere alle spalle nessuna galleria o struttura avendo finanziamenti di collezionisti che mi vado a cercare, è creare un esempio fuori dal coro perché abbia un senso. Cerco di essere coerente con me rischiando tutto perché questa dimensione non è affatto semplice”.

Ti senti libero?

“Sì, ha tutti i segni della libertà addosso. L’artista deve essere una figura libera e coraggiosa. Abbiamo bisogno di portare l’opera d’arte al centro e l’artista deve essere una figura autentica. Non deve essere un prestanome perché sennò saremo ricordati in questa epoca come uno dei periodi più fragili e banali. Tutta questa maledetta tecnologia ha allontanato il sapore del vivere. Siamo tutti più ebeti. Se non arriviamo a un punto di rottura non ce ne rendiamo conto per cui anche i nostri linguaggi espressivi sono leggeri. Le guerre sono virtuali, sono distanti dall’occidentale, non riguardano mai noi, sono di là. In questi posti sono talmente devastati che non possono costruire cultura anzi quello che c’era viene addirittura cancellato e noi viviamo in un mondo di plastica, di non odori, di odori artefatti. L’artista deve ritornare ad essere un cavaliere azzurro”.

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Laura Bercioux

Laura Bercioux

Il giornalismo è la mia passione dove vale la pena “consumare le suole delle scarpe”. Credo nella libertà di stampa e in un giornalismo indipendente. Il teatro e il cinema come la televisione fanno parte della mia vita professionale. Senza il teatro non sarei andata da nessuna parte. Essere giornalisti significa avere un occhio sul mondo, sui fatti e le persone. Amo Napoli e New York, le due città dove mi sento a casa. Il mio motto: Libera come il vento!

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