Il curriculum di Ruth Ben-Ghiat è impressionante. Stiamo parlando di una delle massime esperte statunitensi di storia italiana e in particolare del periodo fascista. Da sempre interessata ai rapporti tra regime e propaganda ha scritto libri su questo tema e insegna da anni alla New York University. Ha collaborato con le più importanti testate americane dal New York Times al Washington Post e attualmente scrive per il New Yorker, una delle -se non la– rivista migliore del mondo.
Contestare dunque un’intellettuale di tale spessore potrà giustamente sembrare al lettore quasi un atto di blasfemia, eppure, ritengo necessario farlo da italiano e soprattutto da architetto.
Pochi giorni fa, proprio sulle pagine del New Yorker, è apparso un articolo, a firma della Ben-Ghiat, dal titolo Why Are So Many Fascist Monuments Still Standing in Italy? uno di quegli articoli che già alla fine del primo paragrafo fa venir voglia di prendere in mano carta e penna e rispondere.
Non starò qua ad analizzare le insinuazioni politiche che appaiono comunque piuttosto forzate dal momento in cui si spingono a considerazioni quasi antropologiche sul popolo italiano tutto. Ciò su cui vorrei soffermarmi piuttosto sono le gravi inesattezze storiche alla base di tutto l’articolo.
Ovviamente, è sempre utile specificarlo, il fascismo fu una dittatura violenta e sanguinaria e non mi sognerei mai di riabilitare Mussolini e suoi crimini. Quello che vorrei invece contestare è che quando si parla di un argomento, in questo caso di architettura, è necessario essere precisi.
Quando ad esempio la Ben-Ghiat fa notare che, a differenza di quanto accadde nel resto del mondo e in particolare in Germania, qui da noi siano stati salvati dalla distruzione un’infinità di edifici fascisti, cita un dato incontrovertibile ma lo fa in modo impreciso e strumentale.

Si dovrebbe premettere innanzi tutto che qui da noi la produzione architettonica di quegli anni fu sterminata; nulla a che vedere che le altre nazioni, ciò non di meno all’indomani del 8 settembre una ragionevole e comprensibile furia iconoclasta pervase il popolo liberato che si sfogò contro statue, fasci littori e simboli del ventennio. Altro discorso erano però gli edifici. Nulla comunque di così diverso da quanto accadde altrove. L’articolo contrappone ad esempio l’Italia alla Germania ma ciò che si omette è che anche là si scelse di mantenere quel poco che scampò alle devastazioni della guerra: lo Stadio Olimpico di Berlino non solo è stato salvato ma, in anni recenti, persino sapientemente restaurato nel rispetto del progetto di Werner March del 1936. Che dire poi dell’aeroporto di Tempelhof, che Hitler orgogliosamente considerava il fiore all’occhiello della nuova capitale, è ancora lì. Analogamente il Ministero dell’Aviazione -il cosiddetto Reichsluftfahrtministerium- edificato su espressa volontà del Feldmaresciallo Hermann Göring è diventato l’attuale Ministero delle Finanze. Non si può poi dimenticare il caso per certi versi più emblematico: lo Zeppelinfeld di Norimberga. Il maestoso spazio ideato da Albert Speer per ospitare le inquietanti adunate del suo Furher; Ebbene anche quello è ancora in piedi in tutta la sua imponenza, seppur fortunatamente ripulito dai macabri simboli della follia nazista.

Insomma anche la Germania, di cui la Ben-Ghiat parla in termini quasi virtuosi, vive tutt’oggi a stretto contatto con gli edifici di allora. Un controsenso? Probabilmente no se solo si affrontasse l’argomento lasciando da parte le ideologie.
Uno degli errori di fondo in quell’articolo è il fatto che l’architettura viene assimilata ad una statua e non si fa distinzione tra un simbolo e un edificio. In effetti l’architettura -quella fascista come di ogni altra epoca- è portatrice senz’altro anche di un dato ideologico, questo è innegabile, ma la sua natura, la sua componente prettamente strutturale, la rendono destinata a sopravvivere a molte generazioni di uomini e con loro anche alle loro ideologie. Nondimeno, e più banalmente, fu quella stessa solidità che suggerì probabilmente a chi venne dopo che forse sarebbe stato più utile sfruttarne l’eredità architettonica anziché accanircisi contro. Roma nella sua storia millenaria è del resto sempre stata maestra nel re-inventare l’ esistente.
A questo proposito intendo citare un aneddoto. In uno splendido acquerello dipinto da David Roberts nella prima metà dell’Ottocento è immortalato il ritrovamento dell’antico tempio egizio di Edfu. Osservandolo oggi, ad oltre centocinquant’anni di distanza, ciò che colpisce di quell’immagine sono soprattutto le enormi dune di sabbia che sembrano inghiottire un monumento ormai familiare. Ma mettiamoci per un attimo nei panni dei contemporanei di Roberts; Beh ciò catturava la loro attenzione di fronte alla stessa immagine erano piuttosto quei giganteschi capitelli che affioravano nel bel mezzo del deserto.
Citare questo paradosso può essere utile per ribadire un concetto che sembra essere del tutto ignorato in questi ultimi tempi: l’interpretazione delle immagini è soggetta ai codici con i quali essa viene letta e al loro mutare varierà inevitabilmente anche il significato dell’immagina stessa.
Pensate a questo proposito proprio ai fasci littori. Per millenni furono solo un simbolo del potere e le sculture romane ne sono spesso adorne. Anche nelle decorazioni dell’Altare del Patria, costruito ai primi del Novecento, se ne fa un largo uso. Solo successivamente Mussolini se ne impossessò e oggi il loro valore simbolico è stato del tutto stravolto rispetto ad appena un secolo fa. Eppure la forma in sé è la stessa.

Questo concetto vale un po’ per tutto naturalmente ma è ancora più importante ribadirlo quando si parla di architettura. Ecco questo è un aspetto importante perché, da studiosi, non possiamo ragionevolmente sapere quale sarà il valore di una determinata opera in futuro, per questo dovremmo conservarla, tanto più se si parla di una pagina che, seppure drammatica, possiamo -e dobbiamo- oggi affrontare con la giusta distanza storica.
Certo non voglio negare le pericolose e deprecabili recrudescenze ideologiche che periodicamente riaffiorano in questo paese che vanno combattute e debellate (un discorso analogo dovrebbe però valere anche per gli USA) ma è semplicemente assurdo metterle in relazione con la presenza di edifici fascisti, di cui, la maggior parte della gente, oltretutto ignora completamente la storia.
Quando poi la Ben-Ghiat insinua che il popolo italiano ha ormai una certa familiarità nel convivere con l’ideologia nera verrebbe da ricordarle che invece il suo popolo, quello americano, sembra essere ripiombato piuttosto in una sorta di maccartismo storico-culturale in cui la caccia alle streghe ha le sembianze di un’insensato revisionismo storico.
Ma torniamo all’architettura. C’è un ulteriore equivoco di fondo di quell’articolo sul quale vorrei soffermarmi. Si parla infatti, in ogni riga, di una generica architettura fascista senza entrare troppo nel merito, quasi si trattasse di edifici costruiti solo per esaltare Mussolini e la sua follia criminale.
Ciò che viene completamente omesso è che in quei vent’anni un paio di generazioni di architetti, tra i più importanti della storia del Novecento -non solo italiano-, hanno espresso il loro talento realizzando una miriade di capolavori ancora oggi studiati e ammirati. Inutile citarne i nomi, la lista sarebbe sconfinata. Sarebbe invece interessante sottolineare un altro aspetto che la Ben-Ghiat sembra voler ignorare: il fascismo non inventò quello stile, piuttosto lo scelse. La precisazione può sembrare marginale ma deve far riflettere.
Andrebbe ricordato infatti che quell’architettura definita “fascista” è nata molti anni prima della marcia su Roma, già agli inizi del ‘900. Si assisteva in quegli anni ad un dibattito piuttosto animato; Da una parte alcune nuove tecniche edilizie, come il cemento armato, avevano fatto la loro comparsa e promettevano quelle forme inedite con cui il movimento moderno si sarebbe affermato. Contemporaneamente l’Italia -nata appena da una trentina d’anni- era ancora alla ricerca di uno stile architettonico unitario che fosse degno erede degli antichi fasti. Ecco fu proprio in questo periodo che, complice la riscoperta di alcuni importanti siti archeologici come quello di Ostia Antica, l’architettura italiana tornerà a guardare al classicismo con rinnovato interesse. Siamo negli anni dieci del secolo scorso e, anche attraverso il lavoro di maestri come Milani, Giovannoni e Fasolo, nascerà una nuova estetica che combinerà la tecnica moderna con la forma -seppur semplificata- derivata dall’antichità classica. Un nuovo stile che non solo si affermerà nel nostro paese ma che si diffonderà anche altrove, persino in quei paesi in cui il fascismo venne poi combattuto: a questo proposito citiamo il Palais de Tokyo ( 1937) nella Parigi dell’insospettabile Léon Blum, leader del Fronte Popolare, o il palazzo della Federal Reserve nella Washington del democratico Franklin Delano Roosevelt. Entrambi erano edifici che avremmo potuto tranquillamente ammirare in città di fondazione come Littoria o Aprilia.

Questa architettura fu insomma il risultato di una ricerca architettonica iniziata mezzo secolo prima e che dall’Italia si diffonderà anche altrove indipendentemente dalle ideologie seppur con un’estetica pressoché identica.
Sarebbe -per concludere- semplicistico affermare, come fa la professoressa, che la sopravvivenza di tutto il patrimonio architettonico del Ventennio sia frutto della calcolata strategia propagandistica alleata volta a scongiurare, nel dopoguerra, una deriva comunista dell’italia che ricopriva allora un ruolo decisivo nello scacchiere politico internazionale. Appare invece più ragionevole pensare che fu riconosciuta la qualità degli edifici e dei progettisti.
Forse vale la pena, ancora una volta, rileggere le parole di Pier Paolo Pasolini di fronte al profilo di Sabaudia: “La sua architettura –diceva il poeta– non ha niente di irreale e di ridicolo: il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere tra metafisico e realistico. […] Come ci spieghiamo un fatto simile che ha del miracoloso? […] Bisogna esaminare un po’ la cosa, cioè: Sabaudia è stata creata dal Regime, non c’è dubbio, però non ha niente di fascista in realtà, se non alcuni caratteri esteriori. […] Sicché Sabaudia, benché ordinata dal Regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante, accademico, non trova le sue radici nel regime che l’ha ordinata ma in quella realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente, ma che non è riuscito a scalfire”.
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