Anche se per sbaglio, l’America è stata scoperta da un italiano: forse (anche) per questo motivo i rapporti tra i due Paesi sono stati sempre stretti. Anche in ambito artistico, come prova la mostra New York New York. Arte italiana: la riscoperta dell’America, inaugurata il 13 aprile a Milano e presentata al pubblico newyorchese mercoledì 19 aprile al CIMA (Center for Italian Modern Art).
A distanza di pochissimi giorni dall’inaugurazione è il suo stesso curatore, il professore dell’Università Cattolica di Milano Francesco Tedeschi, a farsene ambasciatore, sollecitato dalle puntuali domande di Raffaele Bedarida, assistant professor di Art History alla Cooper Union nonché ex fellow proprio del CIMA. La mostra, ospitata dal Museo del 900 e dalle Gallerie d’Italia, espone al pubblico 170 opere, ognuna rappresentativa a modo suo della percezione dell’America da parte degli artisti italiani in un arco di tempo che va dagli anni ‘10-’20 fino agli anni ’60.
L’idea, confessa Tedeschi, viene dalla sua esperienza didattica: “Nel 2010 visitai una mostra e vidi la serie di quadri di Emilio Vedova intitolata De America: pensai che sarebbe stato interessante, per i miei studenti, un corso dedicato ai viaggi degli artisti italiani negli Stati Uniti durante il ‘900. Ora, a distanza di qualche anno, il corso si è trasformato nella mostra”. Il cui titolo, aggiunge, vuole essere emblematico del rapporto bi-direzionale che lega non soltanto Italia e Stati Uniti ma le due sponde dell’Atlantico, portatrici di culture diverse che non hanno mai smesso di cercarsi e di contaminarsi a vicenda. Tedeschi sottolinea infatti a più riprese, con termini risalenti al concetto di scambio, la “duplicità dell’arte italiana”, soggetto ma anche oggetto; e infatti, in mostra ci sono anche cinque artisti americani, a dimostrare come l’influenza sia stata reciproca. Gli artisti italiani espressero nei loro dipinti l’immagine degli USA – incarnatasi soprattutto nella città di New York – che percepirono durante i loro soggiorni: un vero e proprio dialogo, che però “nasconde anche una sfida, ovvero il fatto che fu solamente attraverso il riconoscimento ottenuto negli USA che gli artisti italiani del ‘900 vennero finalmente visti come partecipanti a pieno titolo all’avanguardia modernista”.

Oltre che interlocutore, ecco che l’America viene percepita anche come giudice alternativo a quella Parigi che – seppure altrettanto importante – non riconosceva fino in fondo l’originalità dell’esperienza artistica italiana. Soggiornare in e dipingere l’America significava appropriarsene, stabilendo un “doppio riconoscimento che portasse ad affermare la propria reciproca identità attraverso il tramite dell’arte italiana”.
E proprio per questo Tedeschi ha scelto, nel titolo, di parlare di riscoperta dell’America: dopo Colombo e Vespucci, gli artisti italiani del ‘900 riscoprirono gli Stati Uniti interpretandoli con i loro dipinti, apprezzati più che in patria in un Paese meno legato a preconcetti artistici ed estetici. Ma l’America è anche, prosegue Tedeschi, lo “schermo gigante” su cui – citando Pavese – ogni uomo può vedere rappresentato, negli altri, il suo stesso dramma; anche se, per gli artisti italiani che vi soggiornarono negli anni ’50, essa fu più che altro un modo per “evadere dalle ristrettezze culturali del Belpaese ed essere finalmente riconosciuti per se stessi, più che seguaci o imitatori di mode o autori”. Vedere New York negli anni ’50 fu infatti, per artisti come Afro, Burri o Scialoja, la possibilità di incontrare un pubblico e una critica disposti a valutarne la carica innovativa; mentre al contrario, in Italia, la mancanza di una grande struttura centrale per l’arte contemporanea portava inevitabilmente alla formazione di una miriade di piccoli o piccolissimi gruppi raccolti intorno a critici, giornali o eventi.

Entrando maggiormente nello specifico, la mostra adotta un approccio storico transnazionale raccontando momenti diversi di questa emigrazione – più o meno temporanea – verso gli USA. Ricorda per esempio Tedeschi che Depero a New York ebbe pochissima fortuna, ma che tornato in patria ribaltò tale situazione – anche grazie alla mancanza di notizie e informazioni dirette – in un “mito di conquista” da parte sua del pubblico americano. Mentre, al contrario, è molto divertente leggere nelle lettere scambiate tra Toti Scialoja, Afro e Alberto Burri le espressioni di meraviglia per le persone incontrate a New York. E se Marinetti chiedeva beffardamente a Depero cosa mai andasse a fare a New York, una città in un Paese privo di una vera arte, può forse sorprendere che Margherita Sarfatti, tornata da un soggiorno, suggerisse a Mussolini di prendere a modello gli americani per tutto: gestione della società, economia, ma anche arte e cultura.
E poi ancora un De Chirico (cui è dedicata la mostra attualmente in corso al CIMA) che vede in New York la realizzazione concreta della sua pittura metafisica, immaginando le persone dentro ai grattacieli come gli attori del cinema muto. Oppure il controverso Corrado Cagli, autore di pitture ufficiali per il regime fascista ma costretto a emigrare a New York per le leggi razziali che colpivano anche lui e che, tornato in Italia, venne nuovamente attaccato per il suo passato fascista; o infine Costantino Nivola, che negli anni ’40 realizzò le decorazioni murarie dello showroom Olivetti a New York.
Il passaggio statunitense era tappa obbligata verso il successo, sembra suggerire Tedeschi: “Spesso accadeva, e questo perciò spingeva altri artisti italiani a tentare la via – temporanea o definitiva – degli Stati Uniti”. Un passaggio fondamentale, che la mostra milanese racconta attraverso l’esposizione di opere uniche e fondamentali, vero e proprio manifesto della ricerca artistica italiana durante il ‘900.