In un pomeriggio della primavera del 1934, in un negozio di liquori del centro di Torino irruppe un uomo che, senza badare troppo a chi avesse attorno, si avvicinò con passo deciso alla cassa. Con tono perentorio, invitò il negoziante a smettere con ciò che stava facendo. No, non si trattava di una rapina. Alla cassa in quel momento sedeva Giampiero Combi e l’uomo che aveva di fronte era Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale di calcio, che era lì per convincere l’ex glorioso portiere a tornare in campo per l’ultima volta. La seconda edizione del Mondiale era alle porte: si sarebbe giocato in Italia e bisognava vincere a tutti i costi per non deludere Mussolini.
Era accaduto poche ore prima che il titolare della nostra squadra, Ceresoli, durante il ritiro, si fosse infortunato gravemente e così Pozzo non ebbe dubbi: la vecchia leggenda Combi era l’unico che potesse prendere quel posto e poco importava se il portiere della Juventus avesse deciso da qualche settimana di smetterla col calcio e di tornare ad occuparsi del negozio di famiglia.
Il regime aveva fortemente voluto ospitare la seconda edizione dei campionati mondiali di calcio. Il successo registrato quattro anni prima in Uruguay e le capacità persuasive del presidente della federazione Arpinati avevano convinto il Duce che quella sarebbe stata un’ottima occasione per celebrare il regime, possibilmente anche con una vittoria.
Stadio cercasi a Roma
Sembra incredibile oggi, ma il nostro paese era allora indiscutibilmente all’avanguardia quanto a impianti sportivi. Solo l’Inghilterra poteva vantare strutture migliori, ma loro, gli inventori del football, non avevano nessuna intenzione di confrontarsi con il calcio apocrifo che si praticava nel resto del mondo. Da noi c’erano già grandi stadi come quello di Torino, Milano o Genova; a questi furono affiancati il più recente Littoriale a Bologna e soprattutto il Giovanni Berta di Firenze. Rivoluzionario capolavoro di ingegneria progettato dal giovane Pier Luigi Nervi.
La finale del Mondiale si sarebbe disputata a Roma non sul prato dell’odierno Olimpico, che non esisteva ancora, bensì nel vecchio impianto che sorgeva sulla via Flaminia ribattezzato, in ossequio al regime, Stadio del Partito Nazionale Fascista. La storia è poco nota ma affascinante, dal momento che le sue origini sono piuttosto antiche: l’inaugurazione avvenne nel 1911, ma la sua ideazione si può dire che risalisse a circa duemila anni prima, dal momento che il disegno era ispirato direttamente ai grandi esempi di epoca romana, su tutti il Circo Massimo. A volerlo fu tale Bruto Amante, un personaggio assolutamente originale di cui la storia sembra oggi essersi colpevolmente dimenticata.
Amante, uomo colto e grande affabulatore, ricopriva all’inizi del secolo scorso, la carica di presidente della Federazione Scolastica Nazionale di Educazione Fisica e aveva a lungo caldeggiato la costruzione, a Roma, di un nuovo e moderno stadio che non facesse rimpiangere quelli antichi. Anzi, affascinato dalle rovine classiche, propose inizialmente un progetto imponente: ricostruire il Circo Massimo.
L’esempio olimpico
Oggi solo immaginarlo ci riesce difficile, siamo ormai abituati a pensare al grande invaso ai piedi del Palatino come un enorme spazio verde, eppure all’epoca l’idea fu presa sul serio e per alcuni anni si andò avanti con la progettazione vera e propria. Del resto alla fine dell’Ottocento, complici le campagne di scavi che in quegli anni riportavano alla luce i resti di luoghi mitici come Troia e Olimpia, l’Europa era stata attraversata da un desiderio di riscoperta della cultura antica. Fu in quel periodo che un barone francese, discendente di Cyrano, prendendo la parola durante un convegno alla Sorbonne, illustrò la sua proposta di organizzare dei moderni giochi olimpici, suscitando applausi scroscianti ed entusiasmo da parte di tutti. Era il 1896 quando Pierre De Coubertin realizzò finalmente il suo progetto e per farlo scelse Atene, la culla della cultura classica. Il comitato organizzatore, per quanto piuttosto primitivo, dispose la costruzione di nuovi impianti e in particolare di uno stadio. Non ci furono grandi dibattiti, la scelta era ovvia: per il progetto bisognava rifarsi all’antichità. Anzi, ci si spinse oltre: si decise addirittura di ricostruire l’antico Panatenaico, lo stadio voluto nientemeno che da Licurgo. Una grande arena a forma di ferro di cavallo completamente rivestita di marmo che poteva contenere ben 80.000 spettatori, un vero prodigio tutt’ora utilizzato.
Il debutto delle moderne Olimpiadi fu entusiasmante: purtroppo, però, le due edizioni successive, a Parigi e St. Louis, non furono altrettanto fortunate. Fu a quel punto che De Coubertin si rese conto che solo un luogo al mondo avrebbe potuto restituire l’antico prestigio alla sua manifestazione e quel luogo era Roma.
La ritirata di Giolitti
Fu in quel frangente che il nostro Bruto Amante intravide l’opportunità di realizzare il suo progetto di ricostruzione del Circo Massimo. Non a caso coniò il motto “Ellade e Roma” con l’auspicio che nella Capitale potesse essere seguito “lo splendido esempio della resurrezione del Panatenaico”.
E Roma fu effettivamente designata dal Comitato Olimpico per ospitare i giochi della IV Olimpiade ma Giolitti, allora a capo del governo, non ne era affatto entusiasta. Così, quando la mattina del 4 aprile 1906 un’eruzione del Vesuvio devastò alcuni centri del napoletano, causando la morte di oltre duecento persone, il primo ministro si affrettò a ritirare la candidatura sostenendo che l’emergenza imponesse una tale decisione. Mancavano in realtà ancora più di due anni alla cerimonia di apertura; ciò nonostante il veto fece svanire il sogno olimpico.
Amante dovette prenderne atto e riporre nel cassetto il progetto, ma di lì a poco si sarebbe presentata una nuova occasione, seppur in un contesto completamente differente.
Un progetto regale
Nel 1911 ci si apprestava a festeggiare i primi cinquant’anni del giovane Regno d’Italia. Roma, assieme a Torino, avrebbe ospitato l’evento. Amante tornò alla carica riproponendo la sua idea e questa volta si premurò di avere dalla sua anche alcuni illustri “testimonial”: furono diverse le personalità di spicco che appoggiarono la proposta. Gabriele D’Annunzio fu tra i primi e più convinti sostenitori, anche lo storico Adolfo Venturi si dichiarò favorevole come pure uno dei figli di Garibaldi.
Furono addirittura due, Giulio Magni e Giulio Podesti, gli architetti incaricati di redigere un progetto del nuovo Circo Massimo basandosi su un vera e propria ricostruzione secondo le indicazioni archeologiche ricavate dagli scrupolosi studi del grande Rodolfo Lanciani.
Ciò che ne scaturiva era uno stadio immenso (misurava 90 per 560 metri): nessuno degli attuali impianti, nemmeno i più grandi, è lontanamente paragonabile alle dimensioni di quel progetto. La struttura era così grande che avrebbe potuto ospitare manifestazioni di educazione fisica ma anche competizioni ippiche, esposizioni e persino esperimenti di volo.
Al di sotto della cavea i vasti locali erano destinati “a quanto necessario alla organizzazione dei diversi spettacoli”, ovvero a spogliatoi, scuderie e relativi servizi igienici ma anche alle abitazioni dei custodi, gli uffici della direzione e, secondo una filosofia estremamente moderna, ai numerosi ristoranti che avrebbero sfamato il pubblico.
Nun c’è trippa…
Le planimetrie, le sezioni e una splendida vista a volo d’uccello magistralmente disegnate dai due progettisti arrivarono già nel 1908 sul tavolo del sindaco, il famoso Ernesto Nathan, ma questi, dopo un’attenta analisi, bocciò la proposta. La giudicò troppo onerosa sia per lo stato disastrato in cui versavano i bilanci comunali sia per l’austerità che egli stesso aveva imposto e che l’ironia dei romani non mancò di immortalare con il tagliente detto “nun c’è trippa pe’ gatti”.
Il primo cittadino era però consapevole delle necessità della città e, se da una parte scartò l’ipotesi di Amante, dall’altra, propose di realizzare un progetto analogo, seppur con dimensioni ridotte, su un altro sito, e incaricò un giovanissimo Marcello Piacentini di elaborare a questo scopo una nuova proposta.
Fu inevitabile a questo punto infilarsi nella più classica delle situazioni di stallo e così per risolverla si decise di ricorrere ad un referendum tra gli addetti ai lavori. Ebbene personalità del calibro di Ernesto Basile, Guglielmo Calderini, Antonio Fogazzaro, Ugo Ojetti ed Ettore Ximenes, in pratica l’eccellenza degli intellettuali e degli artisti romani dell’epoca, dichiarò di preferire la proposta di Piacentini, quella cioè di un nuovo stadio da costruire, da zero, lontano dalla zona monumentale ed archeologica della città.
Duemila anni dopo
Amante usciva ancora sconfitto e questa volta definitivamente. Il sogno di ricostruire il più grande stadio dell’antichità tramontava definitivamente. Ciò nonostante lo spirito di quel progetto era sopravvissuto influenzando enormemente la nuova proposta. Il progetto di Piacentini, al quale fu affiancato in un secondo momento lo scultore Vito Pardo, riprendeva infatti tutti i caratteri del disegno primigenio di Magni e Podesti per il nuovo Circo Massimo.
I lavori durarono poco meno di due anni e costarono circa 800.000 lire, ma puntuale per l’inizio dei festeggiamenti del 1911, si inaugurò il nuovo Stadio Nazionale sorto lungo la via Flaminia, non lontano da Piazza del Popolo. Un’arena a forma di ferro di cavallo, la stessa del Circo Massimo, con un grande ingresso trionfale classicheggiante chiuso da cinque eleganti colonne corinzie sovrastate da delle vittorie alate. Sugli spalti dell’arena trovavano posto circa 25.000 spettatori disposti attorno ad una vastissimo prato dove potevano svolgersi le manifestazioni più disparate. Roma, la città che nell’antichità poteva vantare le più grandi e stupefacenti arene del mondo, aveva finalmente, dopo due millenni, un nuovo stadio degno della sua storia.
Uno stadio fascista
Moderno sì ma evidentemente non abbastanza. Con l’avvento del regime, che faceva del culto del corpo uno dei suoi punti fermi, lo stadio Nazionale divenne, prima della realizzazione del Foro Italico, il tempio dello sport fascista. Nel 1927 il partito rilevò dal Governatorato l’impianto e lo sottopose così ad un massiccio intervento di ristrutturazione. I lavori, ancora una volta diretti da Marcello Piacentini, prevedevano un ammodernamento di tutte le strutture, ma avrebbero mantenuto la singolare forma “U” per il catino consentendo così una maggiore versatilità rispetto allo schema ad anfiteatro. All’interno fu quindi ricavato un grande campo per il gioco del calcio e una piscina. Sì, una vasca olimpica con tanto di piattaforma per i tuffi. Fu posizionata sulla testata aperta dello stadio che fu modificata appositamente: vennero sacrificate le eleganti colonne corinzie e al loro posto fu costruito un muro chiuso, curvilineo, sormontato da quattro eleganti gruppi scultorei ideati da Amleto Cataldi che raffiguravano rispettivamente il Calcio, la Corsa, la Lotta e il Pugilato. Nasceva così lo Stadio del P.N.F..
Campioni del mondo
Fu proprio su quel campo di gioco che si disputò l’atto conclusivo della seconda Coppa del Mondo di Calcio. Quel giorno, quello della finale, il risultato non sembrava volersi schiodare dall’1 a 1 agguantato dall’Italia a pochi minuti dalla fine grazie al provvidenziale gol di Raimondo Orsi. Poi dopo un’attesa che sembrò nervosamente infinita, durante i tempi supplementari, un preciso passaggio di Guaita trovò sulla fascia destra Schiavio che con un rasoterra di destro batté il portiere cecoslovacco Planicka.
Fu il delirio. Lo stadio esplose in un boato liberatorio al quale si aggiunse l’esultanza di tutti gli italiani che in quel momento erano in strada ad ascoltare gli altoparlanti che diffondevano la cronaca della partita (o almeno un personale racconto di questa) fatta da Niccolò Carosio.
La nostra Nazionale per la prima volta era Campione del Mondo: era il pomeriggio del 10 giugno del ‘34, e sotto gli occhi fieri del Duce il capitano Giampiero Combi alzò al cielo la Coppa Rimet tra le urla festanti dello stadio del Partito Nazionale Fascista.
Icone dimenticate
Anni dopo, nel 1949, lasciata alle spalle la tragedia della guerra, il nome di quello stadio intitolato al partito fascista era ovviamente divenuto intollerabile. Così, all’indomani del 4 maggio 1949, il tragico giorno in cui la più grande squadra di calcio di tutti i tempi trovò la morte in un assurdo incidente aereo sulla collina di Superga, apparve doveroso dedicarlo alla memoria del Grande Torino. Durò poco. Solo una decina d’anni più tardi, vogliosi di dimostrare al mondo il miracolo economico compiuto dal nostro paese, si deciderà di sacrificare l’antico stadio. Le ruspe, ironia della sorte, lo demoliranno proprio in nome dei cinque cerchi olimpici. Al suo posto, per i Giochi del 1960, verrà infatti innalzato l’attuale Flaminio: una delle più belle architetture del dopoguerra romano, progettata da Pier Luigi Nervi.
Di ciò che c’era lì prima si perderà completamente memoria. Del vecchio impianto sopravviveranno solo i quattro gruppi scultorei di Amelto Cataldi oggi svogliatamente collocati tra le aiuole del vicino Villaggio Olimpico e qualche immagine che fa da sfondo agli ultimi, drammatici, fotogrammi di Ladri di Biciclette di De Sica.
Il moderno Flaminio poi, oggi ormai inutilizzato, sta anch’esso lentamente cadendo nell’oblio. Di quella finale e degli uomini che regalarono lì il primo mondiale all’Italia non v’è memoria. Nemmeno una lapide a ricordare Vittorio Pozzo, l’unico allenatore nella storia del calcio ad essere riuscito a conquistare due mondiali consecutivamente. Nel paese in cui solo il calcio è ormai un’autentica religione, un’eresia del genere, quest’iconoclastia al contrario, è inaccettabile.