Da bambino giocava a pallone in un collegio internazionale vicino Zurigo con l’attuale segretario di stato John Kerry, faceva a cazzotti con Marzio Ciano, il figlio di Edda Ciano, e si preparava ad entrare nel mondo con l’esperienza di un ragazzo milanese figlio di una mamma siciliana e un papà avvocato e ufficiale degli alpini che aveva trascorso quattro anni nel campo di concentramento di Mauthausen.
Roberto Brambilla è uno dei primi italiani arrivati in America negli anni Settanta con un passaporto da privilegiato. Dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano, vince una borsa di studio ad Harvard dove ottiene un Master in Urban Design.
Siamo alla fine degli anni Sessanta. La precedente immigrazione dal Belpaese era quella del dopoguerra mentre quella di oggi è chiamata dei “cervelli in fuga” o “in viaggio”. Roberto arriva proprio a metà fra questi due flussi e porta l’esperienza del design europeo nell’architettura americana. Si interessa di architettura del paesaggio, degli usi sociali dell’architettura. Si contraddistingue subito per l’attenzione all’aspetto sostenibile sia in progetti urbanistici che nelle commissioni private. Per lui l’architettura ha un forte valore sociale e umano.
Ha curato e continua a portare avanti progetti in tutto il mondo. Quello più ambizioso è in Sicilia, dove insieme ad alcuni amici internazionali ha comprato un vecchio casale nella Val di Noto. Una ristrutturazione lunga che a fine mese dovrebbe concludersi e dare alla luce un resort. L’obiettivo finale è però ancora da completare. Ce lo racconta Roberto Brambilla insieme a storie di una vita intensa vissuta a New York e nel mondo.
Roberto sei arrivato negli Stati Uniti nel 1968 e a New York nel 1970. Come era allora l’America per un giovane italiano che arrivava da Milano?
“Era più vibrante, diversificata, umana. Io la percepivo in maniera diversa. Ero un giovane arrivato dall’Italia, figlio unico con una mamma siciliana e per me è stata un’esperienza travolgente e stravolgente. In America ho avuto da subito la possibilità di lavorare e di realizzare le mie idee. Allora a New York c’era un’umanità incredibile, uno scambio umano straordinario. Oggi c’è, quello che io amo definire ‘un umanesimo corporativo’, fatto di rapporti codificati, rapporti di affari meno spontanei. C’erano più artisti, più giovani e più osservatori mentre oggi gli artisti sono andati via e gli osservatori sono solo i turisti. Tribeca, dove vivo, è diventato un quartiere costosissimo, mentre Soho, dove molto gallerie hanno chiuso i battenti, sembra mummificato”.
Quando sei arrivato tu negli Stati Uniti eravamo già lontani dall’immigrazione per necessità che c’è stata fino agli anni ’50 ma era anche un’immigrazione diversa da quella italiana di oggi. Che percezione avevano gli americani degli italiani allora?
“Io sono arrivato in America da ragazzo privilegiato. Dopo la laurea al Politecnico di Milano, sono stato tra i sei italiani, e l’unico architetto, a vincere una prestigiosa borsa di studio che mi ha portato ad Harvard. Mi hanno pagato gli studi, mi hanno dato la macchina e ogni estate mi davano le gomme di ricambio per poter viaggiare in America. Nel mio settore, quello del design, gli italiani erano molto amati e rispettati. Uno dei primi italiani che ho conosciuto è stato Massimo Vignelli e anche lui era molto apprezzato. Allora a Harvard non c’erano italiani. Ho evitato i miei connazionali per molti anni, non sempre deliberatamente, oggi amo essere in loro compagnia”.
In America hai portato l’esperienza del design europeo sia nei tuoi progetti da urbanista che nella realizzazione degli interni. Come hai fatto a far incontrare il design e la visione architettonica europea con un concetto architettonico americano così diverso?
“A New York ho iniziato a lavorare con il sindaco John V. Lindsay per il primo studio di disegno urbano della città. Sono stato tra i primi a parlare di isole pedonali nelle città americane che oggi vediamo sono state realizzate anche a Times Square e mi sono occupato della riconversione di molte fabbriche ed edifici abbandonati a Tribeca, Soho, a Brooklyn e in altre aree. Noi che abbiamo un’educazione europea siamo nati con il concetto di rispettare il patrimonio storico esistente. Il mio approccio, sia quando realizzo progetti legati all’urbanistica che alle residenze private è sempre quello di non restaurare mai la pelle di queste strutture ma di cercare di capire l’energia interna, la storia dietro le pietre. Sono stato molto fortunato perché quando sono arrivato io c’era molto interesse in America per il design europeo e ho trovato terreno fertile per le mie idee”.
Ti sei fatto conoscere per il tuo approccio sostenibile all’architettura. Il tuo stile si caratterizza per il restauro degli edifici attraverso la loro valorizzazione e il rispetto dell’ambiente e del territorio. Un lavoro che tu porti avanti in tutti i tuoi progetti nel mondo, in America come a Pantelleria, in Sicilia. Che ruolo assegni all’architettura?

“L’architettura è un metodo per affrontare e risolvere i problemi dal lato estetico ma anche pratico. La dimensione estetica è molto importante per valorizzare gli aspetti umani. È impossibile pensare gli individui senza l’arte altrimenti non si possono valorizzare e comprendere molti aspetti profondi della vita. L’arte ci fa andare in fondo alle cose e ai concetti. L’architetto lavora in un contesto più ampio rispetto all’artista perché deve risolvere anche problemi di ordine pratico e funzionale. Un lavoro importante è difficile allo stesso tempo. Per me l’architettura ha un ruolo umano, sociale, molto forte. Architettura sostenibile perché deve rispettare l’uomo, l’ambiente e il territorio. L’architettura come strumento per migliorare e rendere più vivibile la nostra società. A me piace assegnare all’architettura un ruolo funzionale, in diretto contatto con il suo uso. Inoltre lo spazio architettonico deve essere fondamentale alla nascita della dimensione umana, sociale. Per questo io amo molto il concetto di piazza, come centro di incontro in uno spazio, un teatro urbano dove nascono e si sviluppano storie”.
Un lavoro difficile, dicevi tu, anche se ci sono molte archistar che hanno riportato in auge questa professione…
“Non tutte le archistar hanno affidato all’architettura un ruolo sociale. Apprezzo moltissimo Renzo Piano che è riuscito a coniugare bellezza, stile e sostenibilità”.
Ricordiamo Zaha Hadid che è venuta a mancare di recente. Cosa apprezzi dei suoi lavori.
“Un estro eccezionale “.
La tua infanzia è una storia interessante che si intreccia con un periodo storico ben preciso e un’esperienza internazionale che ti ha aperto la strada verso il mondo.
“Mio padre era un avvocato, ma durante la Seconda guerra mondiale era un ufficiale degli alpini che si era rifiutato di firmare l’ordine di mettere le truppe italiane sotto il commando tedesco. Così è stato mandato in un campo di concentramento, a Mauthausen, per quattro anni. Io lo conobbi la prima volta quando avevo cinque anni. Mio nonno materno, questo siciliano avventuriero che andava in giro con la bottiglia di olio di oliva nel taschino perché non si fidava di altro, fondò una società di commercio nel settore dei diamanti e propose a mio padre di andare a Buenos Aires per un anno. Di conseguenza io venni mandato a studiare in un collegio svizzero internazionale dove io giocavo a pallone con l’attuale segretario di Stato Kerry e facevo a botte con Marzio Ciano (il figlio di Edda Ciano, nda). Un ambiente internazionale che mi ha aiutato a vincere la timidezza e proiettato verso il mondo”.
Il tuo amore per la Sicilia va oltre il fatto che sei figlio di una mamma siciliana. Hai lavorato a diversi progetti nell’Isola: a Pantelleria e ora nel nuovo progetto di Casal di Noto.

“A Pantelleria, dove vado sempre d’estate, abbiamo sviluppato un progetto di recupero e riqualificazione dei dammusi (le costruzioni tipiche dell’isola, ndr) nel rispetto totale del territorio e del paesaggio. Negli anni settanta aprimmo anche una scuola di architettura del paesaggio. L’obiettivo era quello di creare una cooperativa di dammusi gestita dagli stessi contadini piuttosto che venderli a qualche romano o milanese. Il progetto che io chiamo Casal di Noto ha un obiettivo ambizioso che nasce da una chiacchierata con amici internazionali che, insieme a me, avevano voglia di costruire un luogo di ritrovo da qualche parte del mondo. Abbiamo prima pensato a Istanbul o Marrakech, ma poi ci siamo resi conto che non c’era posto ideale se non in Sicilia. Abbiamo investito sull’acquisto e la ristrutturazione di un casale del 1.700 in un territorio bellissimo: la valle di Noto. Dopo molte trafile burocratiche finalmente questo casale è stato trasformato in un resort con 15 suites, che sarà inaugurato a fine Aprile. Il progetto però è molto ambizioso e ha ancora molte fasi da sviluppare perché noi vogliamo creare un polo turistico-culturale che ospiti un campus internazionale, una residenza per artisti che lasciano le loro opere, un museo del vino e un centro gastronomico gestito da Slow Food. L’idea importante che supporta tutto il progetto è l’amore per questa isola bellissima che appartiene a tutta l’umanità. Abbiamo bisogno di completare questo percorso e per farlo vogliamo coinvolgere delle star e tutte le persone che amano la Sicilia e si identificano con l’Isola. La Sicilia merita molto di più ma per valorizzarla, bisogna salvarla dell’esterno. C’è un patrimonio storico abbandonato che merita di essere conosciuto. È un’isola che ha una storia straordinaria molto più ricca della Toscana e di altre regioni italiane. Voglio dire agli Americani e ai turisti internazionali: innamoratevi di quest’isola, conoscetela. In Italia non ci sono soltanto Roma, Venezia e Firenze. La Sicilia è la culla della civiltà occidentale. In più è ben servita con quattro aeroporti internazionali e ha delle risorse infrastrutturali. Questo progetto, vuol essere un progetto pilota con l’obiettivo di diventare un modello di ospitalità culturale che coinvolge il territorio, rispetta il genius loci, valorizza le risorse culturali di questa terra e porta la Sicilia nel mondo”.
Torniamo a New York, la città dove vivi dal 1970. Secondo te cosa ha portato la gentrificazione dal punto di vista sociale ed architettonico e dove sta andando la New York del futuro?

“La gentrificazione non è necessariamente negativa anche perché io avevo subito intuito che Brooklyn sarebbe stato il nuovo village e dal punto di vista architettonico meritava di essere riqualificata. Brooklyn ha però alcune zone sottosviluppate mentre altre dove vivono giovani ricchi e hipster. New York, soprattutto Manhattan, sta andando ad aumentare la sua densità in maniera eccessiva. Questo è un trend negativo, dettato da una logica capitalistica, che sta portando a costruire grattacieli per i nuovi ricchi. Tutto questo ha un impatto forte sull’abitabilità: ci vogliono più servizi, più trasporti e un mix più equilibrato tra gruppi sociali. Il costo della casa non deve superare il 25 per cento del reddito: a New York si arriva all’80 per cento. Il nuovo sindaco mi sembra abbia capito il problema e sta facendo anche delle belle cose ma il suo lavoro è temporaneo e la città deve sottostare e soddisfare alcune logiche e lobbies. Io punterei a costruire, come in parte sta già avvenendo, in nuove zone: Bronx, Queens”.
Cosa ne pensi della tua città, Milano, che sembra conoscere una nuova fase, architettonica e sociale.
“La Milano degli anni Settanta, quella che ho vissuto io, sebbene provinciale, era più provocante più interessante. Oggi Milano non mi stimola. Dal punta di vista architettonico non mi sembra siano state fatte delle cose significative, interessanti. Dal punto di vista umano e sociale, Milano non ha saputo e non sa gestire il flusso dell’immigrazione. È stata poi attraversata da periodi, non di certo positivi, come il craxismo, il berlusconismo. Io ogni volta che torno a trovare mia mamma, che oggi ha 101 anni, mi fermo nella mia casa in zona Garibaldi dove hanno fatto un bel lavoro a livello urbanistico. È un’area pedonale con molti negozi e con una dimensione umana. Milano però ha perso una grande occasione”.
Come immagini la città del futuro?
“Una rete di città piccole malgrado la tendenza inarrestabile sia verso le megalopoli. Del resto il destino dell’uomo è l’urbanizzazione. È una scelta elitaria quella di chi ha la possibilita’ di vivere in campagna, in comunità piccole e alternative. Il rapporto ideale tra popolazione e servizi è sotto il milione. Una città sostenibile è una città dove il sistema dei trasporti sia efficiente ed affidato interamente al settore pubblico. Non di certo come si fa oggi”.
Pensi che Dubai sia la New York del futuro?
“Assolutamente no. Non ha l’anima né la storia di New York. Una città ha bisogno di un’anima”.
Quali sono i ricordi d’infanzia della Sicilia. Cosa ami invece della Sicilia di oggi?
“Mia mamma è una mamma siciliana molto protettiva che arrivò a Milano a sedici anni. Da ragazzino, andammo tre volte in Sicilia in estate per le vacanze con la nostra seicento giardinetta e ricordo che mi innamorai di mia cugina. Mi sono innamorato della Sicilia quando ho iniziato ad occuparmi di conservazione all’università. Ero molto attivo con Italia Nostra e ho partecipato a questo grande progetto chiamato ‘Italia da Salvare’ che ho portato al Metropolitan Museum a New York nel 1972 con il titolo Art & Landscape of Italy: Too Late to be Saved?. Tra le città siciliane prediligo Catania, per la sua vitalità urbana, la sua architettura, il colore grigio cenere delle sue facciate e le sue donne dinamiche, indaffarate ed estremamente seducenti”.
Il video del progetto Casal di Noto è visibile cliccando https://vimeo.com/89456264 (password: noblehouse)
Per maggiori informazioni sui progetti di Roberto Brambilla visitate robertobrambillaassociates.com
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