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April 7, 2016
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Il Whitney rispolvera l’arte del ritratto

Al Whitney Museum i corpi umani diventano fonte di emozione e spunto di riflessione

Mauro LucentinibyMauro Lucentini
Whitney

Rachel Harrison, Senza titolo, 2012

Time: 3 mins read

Ma che è avvenuto del ritratto, incluso l’autoritratto, negli ultimi sessant’anni? A questa semplice, ma sorprendente domanda – sorprendente perché nessuno aveva ancora pensato di farla – il Whitney Museum risponde con una mostra intitolata Human interest: Portraits from the Whitney’s Collection. Se la domanda era sorprendente, la risposta data dal Whitney lo è ancora di più e totalmente inaspettata: questa venerabile categoria estetica, cioè il ritratto sia in pittura che in scultura, è quasi totalmente ignorata dagli artisti dell’ultima e penultima generazione. Perlomeno in quanto pura e semplice rappresentazione di individualità umane. Forse perché al tempo stesso questa funzione è stata svolta prima dalla fotografia, poi da forme di identificazione e di rapporto sociale diverse dall’arte e che si sono rovesciate a valanga sulla collettività umana: le immagini registrate dai telefoni cellulari, i selfie, le reti sociali come YouTube e le altre rese possibili da Internet.

Whitney
Elizabeth Peyton, Live to Ride, 2003.

Il ritratto come semplice forma d’arte, così come si era sviluppato attraverso i secoli, diretto a una penetrazione psicologica più o meno profonda di un altro soggetto, o anche di sé stessi, è diventato in gran parte superfluo. Questo non significa che il corpo umano come soggetto di una pittura o di una scultura – vestito o nella millenaria nonché venerata categoria artistica del nudo – sia stato abbandonato; tutt’altro; però adesso questo soggetto viene generalmente strumentalizzato per scopi totalmente diversi da quelli tradizionali. Per esempio, per sfidare vecchie convenzioni sociali in materia di sessualità, di razza o della relativa posizione sociale di femmine e maschi. O come argomento politico, economico, etico. Un esempio: le bellissime fotografie di Robert Mapplethorpe, di soggetto umano ma fino a tempo recente giudicate così perversamente oscene da causare l’interruzione di sovvenzioni statali americane alle arti. Dai suoi archivi, il Whitney adesso trae ed espone una selezione bellissima su cui nessuno trova più nulla da protestare (per inciso, la rete pubblica tv, o Canale 13 di New York, proprio il tipo di medium che riceve aiuto dallo stato, ha presentato in questi giorni un affascinante documentario sulla vita di Mapplethorpe, morto ancora giovane per Aids).

Oppure, per tornare al Whitney e alla sua mostra, il monumentale autoritratto in olio su tela del 1975 della pittrice americana Joan Semmels, una donna sulla cinquantina, nuda, intricatamente allacciata al proprio amante nudo e anche lui anziano su un letto, una scena classificata un tempo come pornografia e oggi considerato un quadro di intimità commovente. Sempre su tela, la raffigurazione dovuta al pennello di Alice Neel di un vulnerabile Andy Warhol seminudo ritratto nel 1968, che guarda interrogativamente nel vuoto, da poco uscito, con tanto di cicatrici, dalle mani del chirurgo che lo aveva ricucito quando una donna aveva cercato di ammazzarlo (ma solo per morire poi anni dopo in un altro ospedale, ancora giovane, per un’operazione mal riuscita). O ancora: i quattro bellissimi pannelli a olio su tela con il corpo nudo, stanco e disfatto del critico d’arte inglese e direttore di museo John Coplans, scopertosi pittore a sessant’anni e che volle ritrarre la propria vecchiaia: “Vedo milioni di vecchi intorno a me, e vedo me in loro”, diceva. È poi un incanto la coppia di due giovani africani, lui e lei, nudi nella foresta primeva lussureggiante del Congo, ritratti dall’americana Deana Lawson nel 2015 per fare da controcanto al Giardino delle delizie umane di Hyeronimus Bosch.

I soggetti innumerevoli della mostra, tutti sul tema del corpo umano come fonte di emozione o di riflessione o di verità o di giustizia, sono in massima parte di artisti americani. Tra le eccezioni, un gigantesco ritratto (quattro metri per sette), olio su tela, del pittore Rudolf Stingel, nato nel 1956 a Merano, tutto vestito e sdraiato su un letto d’albergo in stato di depressione (“sostenevo una parte”, ha detto). Il quadro di questo altoatesino occupa un’intera parete di uno dei saloni della mostra, che a loro volta si susseguono su tutto un piano dell’edificio del Whitney creato da Renzo Piano sulla riva dell’Hudson. In questa stessa sala, dando le spalle al fiume che luccica dietro a un finestrone, c’è la statua di Giuliano in piedi alta tre metri e mezzo. È un operaio in tuta da lavoro macchiata, fatta di cemento, acciaio, gesso, pigmenti vari; un uomo tranquillo e serafico in cui la grandezza sembra acquistare, non si sa come, un senso anche morale. È dello scultore zurighese Urs Fischer, che si definisce “neo-Dada” e vive a New York.

La mostra, inaugurata i primi di aprile, si svilupperà a partire dal 27 aprile su un intero altro piano e resterà aperta fino al 12 febbraio 2017.

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Mauro Lucentini

Mauro Lucentini

Sono nato e vissuto a Roma che però ho abbandonato più di mezzo secolo fa per fare il giornalista in varie parti del mondo. Ne ho tratto una specie di complesso di colpa nei confronti della mia città natale, complesso che ho un po’ alleviato scrivendo da lontano una Grande Guida di Roma, che si vende in diverse lingue in diversi paesi. A New York venni per rimanerci tre o quattro anni, invece ci incontrai la ragazza più carina e dolce del mondo così ci sono rimasto, mettendo su, come si suol dire, famiglia. Lei però, pur essendo tanto più giovane di me, è poi scomparsa come un fiorellino che muore. In questa lunga carriera, cominciata quasi da bambino, ho sempre scritto sia di politica che di arte e di questo non mi pento.

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