Si chiama Florence Hartmann; corrispondente di Le Monde per l’area balcanica, poi portavoce di Carla Del Ponte quando è stata procuratrice capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia. Grazie ai suoi reportage e alle sue inchieste pubblicate e riprese dai giornali di mezzo mondo, siamo stati informati sulle atrocità consumate in Croazia, in Bosnia, le cosiddette “pulizie etniche”, quando la comunità internazionale stava a guardare, indifferente, assente. Anni fa ha pubblicato un libro-bomba: Paix et châtiment, Les guerres secrètes de la politique et de la justice internationale (Pace e castigo. Le guerre segrete della politica e della giustizia internazionale). Titolo appropriato: il prezzo della “pace”; e il “castigo”, che non arriva. In questo libro la “colpa” commessa da Hartmann.
E’ il Courrier des Balkanes a ricordarcela: per qualche indicibile motivo di “ragione di Stato”, una importante documentazione serba rimane “confidenziale”; in particolare si tratta dei verbali segreti delle riunioni del Consiglio supremo di difesa della Jugoslavia. In cambio di questo “riserbo”, la Serbia consegna documenti che poi vengono usati in diversi processi, e in particolare in quello nei confronti di Slobodan Milosević.
Hartmann sostiene che quei documenti “celati” provano il coinvolgimento diretto della Serbia nei crimini commessi in Bosnia; se fossero stati trasmessi alla Corte internazionale di giustizia (CIG), avrebbero consentito di condannare la Serbia per il genocidio a Srebrenica (quasi ottomila persone massacrate nel 1995, in una “zona di sicurezza” sotto la teorica protezione dell’ONU). In un articolo pubblicato otto anni fa sul “Bosnian Institute” di Londra, Hartmann scrive che “diverse decisioni del Tribunale penale internazionale ex Jugoslavia mostrano chiaramente che il ‘black out’ è stato concesso per non compromettere la posizione della Serbia nel processo intentato dalla Bosnia davanti alla Corte internazionale di giustizia”.
Condannata nel 2009 per “aver ostacolato il corso della giustizia” (così si legge nella motivazione della sentenza), Harmann il 24 marzo viene arrestata all’Aja, mentre segue la conclusione del processo nei confronti di Radovan Karadzić. Sconta tutto sommato una pena lieve: sette giorni, ridotti a cinque per buona condotta, anche se è detenuta in condizioni di massima sorveglianza, isolamento, luce sempre accesa, controllo della cella ogni quindici minuti, perché, si sostiene, la detenuta potrebbe togliersi la vita.
La detenzione presenta aspetti paradossali: a un collega del Guardian Hartmann racconta che mentre lei era rinchiusa in isolamento, dalla finestra “protetta” da capaci sbarre, vede Ratko Mladić, il comandante serbo-bosniaco sotto processo per l’assedio di Sarajevo e il massacro di Srebrenica, passeggiare tranquillo nel cortile del carcere; e lei è rinchiusa in “isolamento”. Ma non è tanto la breve detenzione, il punto. La questione vera è: perché la giornalista viene arrestata, sottoposta a una detenzione che il direttore di Le Monde Jérôme Fenoglio, definisce “scandalosa”? Scandalo è termine appropriato. Non è tanto l’arresto, la detenzione; lo “scandalo” è Florence Hartmann: la sua “pretesa” di essere quello che è: una giornalista che racconta fatti, “scava”, trova documenti e testimonianze; e fa il suo dovere di informare. Questo è lo “scandalo” che non si tollera, che si vuole perseguire; la condanna e la detenzione ad Hartmann suona come monito, avvertimento.
Fate attenzione, si dice: quel tipo di cose che fa Hartmann, è qualcosa che spesso si “paga”: in Turchia, in Russia, in Cina, in Africa, nei paesi arabi. Ora sappiamo che si può “pagare” anche in Olanda; che c’è chi anche nella civile, tollerante, rispettosa Olanda si può “pagare”. Attendiamo con fiducia il prossimo caso Hartmann. Oggi a L’Aja, domani…?
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