Le interessanti mostre d’arte a Manhattan sono in questo momento dozzine, le indimenticabili solamente due. Per coincidenza sono tutte e due dedicate ad aspetti particolari, ma non per questo secondari, della produzione di un’artista di qualità suprema.
La prima è Van Dyck: the anatomy of portraiture (dal 2 marzo al 5 giugno 2016) e si svolge nel solenne quadro della casa in cui visse uno dei grandi protagonisti della “gilded age” industriale americana, la Frick Collection sulla Quinta Avenue. La mostra verte sul processo sia tecnico che emotivo percorso dal pittore fiammingo dell’età barocca Anthony van Dick (1599-1641) per arrivare a una ritrattistica così penetrante ed evocativa dei propri soggetti da fornire, nel suo insieme, il panorama veritiero di una intera classe sociale. I suoi soggetti – poeti, duchesse, re, pittori e generali – sono la élite di un’epoca, e la vivacità e eleganza con cui sono rappresentati sono profonde al punto da costituire una svolta nella storia della pittura. Ciò che anche colpisce è la perfetta certezza con cui l’artista dichiara le sue conclusioni sulla psicologia del personaggio in posa, come se questa gli fosse apparsa in maniera istantanea, quasi per magia. I disegni preparatori che per la prima volta vengono esposti accanto ai dipinti in una mostra di questo artista ne rivelano invece la laboriosa ricerca e i ripensamenti frequenti.
Il centinaio tra dipinti e disegni compresi nella mostra, curata da Stjin Allsteens e Adam Eaker, include opere date in prestito da musei di ogni parte d’Europa. Tra queste fa spicco uno dei più celebri ritratti mai eseguiti dal pittore, quello del cardinale ferrarese Guido Bentivoglio, grande patrono delle arti nella Roma secentesca, prestato dalla Galleria Palatina di Palazzo Pitti e che solo per la seconda volta esce da Firenze per essere esibito all’estero. Tra i pezzi più clamorosi e finora poco noti è lo squisito ritratto di Carlo I d’Inghilterra e della regina Enrichetta Maria del 1632, eseguito cioè diciassette anni prima della decapitazione di questo re nella rivoluzione cromwelliana, opera che per la prima volta nella storia ha lasciato per un viaggio in America la collezione del Castello episcopale di Kromeriz nella repubblica Ceca. Ancora più impressionante, forse per la sua fusione tra austerità e grazia, è il ritratto di un collega dell’artista, il pittore Frans Snyders, eseguito nel 1620 e appartenente alla collezione Frick.
La seconda mostra di cui intendo parlare dista due secoli e mezzo, storicamente, dalla prima e topograficamente una ventina d’isolati. Sta per aprirsi al Museum of Modern Art, tra la Quinta Avenue e la Sesta, e s’intitola Edgar Degas: A Strange New Beauty (dal 26 marzo al 24 luglio 2016), per significare che si tratta di un capitolo diverso e particolare dell’opera di questo insigne maestro parigino (1834-1917), erede del messaggio di Ingres e di Pissarro, a cui fece riferimento per ispirazione e consiglio quasi l’intera generazione del primo post-impressionismo francese. La mostra è un po’ l’antitesi di quella di van Dick, nel senso che mentre la prima esibisce la pittura come punto d’arrivo di un’intuizione artistica, questa è un punto di partenza, trovato da Degas grazie alla sua scoperta di un nuovo veicolo espressivo: il monotipo, una tecnica di stampa diretta a produrre un solo esemplare per volta, che si serve dell’inchiostro o di materia grassa e macchiante, spalmata su una matrice generalmente di rame, per lasciare un’impronta su un foglio di carta umida stretta in un torchio da stampa.
La fluidità e mobilità di questo medium consentono una traduzione immediata del sentimento dell’artista e con essa una sperimentazione continua, che Degas portò avanti, in maniera ignota al pubblico di allora e che solo da poco si rivela a quello di oggi, attraverso centinaia di immagini mono o multicolori che accompagnavano con immediatezza tutta nuova la sua ricerca nei campi naturalistici da lui famosamente amati: la donna, la danza, la prostituzione e il lavoro umile, i cavalli, il cielo, i paesaggi. È questa la “strana nuova bellezza” di cui parla la mostra, consentita dalla fluidità e rapidità di un mezzo che in certo modo accompagnava l’altro da poco diffuso, la fotografia, e che in Degas finisce con lo sboccare finalmente nell’astratto; una di quelle scoperte che, come fu per Picasso la ceramica o per Hockney la creazione e diffusione di immagini cromatiche via telefono cellulare, può infiammare e spronare in un grande artista lo spirito creativo.
L’inaspettata, commovente esposizione è opera dei curatori e conservatori del dipartimento stampe e disegni del MoMA, Jodi Hartman e Karl Buchberg e di collaboratori interni ed esterni.