La Gladstone Gallery presenta fino al 20 febbraio undici opere di Marisa Merz (Torino, 1926) disposte all’interno dello splendido edificio dell’architetto modernista Edward Durell Stone. Se la storia dell’arte distingue l’artista italiana come la sola donna del movimento Arte povera e come la moglie di Mario Merz, compagno di vita e di lavoro, la sua opera trascende ogni categoria e ogni dato biografico.
L’artista stessa sottolinea l’indeterminatezza della sua produzione esposta senza date e titoli. Il visitatore della mostra della Gladstone Gallery avrà il piacere di scoprire il carattere poetico dell’opera di Marisa Merz: le statuette d’argilla che ricordano il viso di una figura umana, le trame sottili di fili di rame, qualche disegno e pittura transformano lo spazio espositivo in uno luogo intimo di contemplazione.
Paradossalmente, per capire le ragioni dell’atemporalità dell’opera dell’artista bisogna rivolgersi alla storia italiana degli anni Sessanta in un momento in cui il boom economico e l’americanizzazione della cultura modificano la stuttura politica, sociale e ambientale dell’Italia.
Nel 1969 Marisa Merz si unisce al gruppo dell’Arte povera fondato due anni prima da Germano Celant a Torino, città di nascita dell’artista. Il critico riunisce allora un gruppo d’artisti legati da una volontà comune di abbandonare la pittura per creare degli oggetti/sculture e interrogare la pratica artistica attraverso azioni e performance. Gli artisti dell’Arte povera rivendicano il carattere umanista, antropologico e anticapitalista delle loro opere liberate dal valore mercantile.
Il discorso antropologico è influenzato nell’Italia degli anni Sessanta dalle traduzioni delle opere di Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques(1955) e La Pensée sauvage(1962), in cui l’antropologo francese mette in discussione le nozioni di modernità e di progresso dell’Occidente etnocentrico. In questi stessi anni le riflessioni sull’arte della preistoria dello storico André Leroi-Gourhan offrono agli artisti contemporanei la possibilità di ripensare il valore del lavoro manuale e della fabbricazione degli oggetti in un presente consumerista.
Alla luce di questi brevi appunti storici, le trame sottili di rame, le statuette, i disegni di Marisa Merz ritrovano il loro valore sovversivo e poetico. La sua arte è un’arte delle piccole cose. Fin dalle prime mostre installate nel suo domicilio, l’artista interroga le frontiere tra lo spazio domestico, l’atelier e il luogo d’esposizione. Questo forte legame con l’ambiente può spiegare il sentimento che si prova entrando nella mostra della Glodstone Gallery. Non è come altri spazi espositivi: lo spazio é riconfigurato in particolare da due installazioni. L’una é composta da una tavola di legno, l’altra da una lastra di rame. Entrambe presentano le rappresentazioni di un viso femminile, poste nella parte bassa dei pannelli come un’umile testimonianza umana. Si tratta forse di due autoritratti dell’artista.
Il rame é un materiale importante per Mariza Merz, per le sue qualità fisiche : é un conduttore di energia e simboleggia la funzione stessa dell’opera d’arte, intesa come oggetto di scambio tra l’uomo e la società.
Le piccole teste di argilla rappresentano figure universali, prive di riferimenti di genere e origini. Ricordano le opere dello scultore Medardo Rosso (1858-1928) esposte la scorsa stagione al Center for Italian Modern Art (CIMA). Come le testine in cera di Rosso, le sculture di Marisa Merz sono forme antimonumentali. Il loro carattere non finito é impreziosito da sottili sfoglie d’oro che ricordano il processo alchemico di trasformazione della materia.
L’arte di Marisa Merz invita lo spettatore a trasformare la sua esperienza della materia e a ripensare il suo rapporto con un’universale realtà umana e sociale.
Vi invitiamo dunque a correre alla Gladstone Gallery e ritagliarvi il tempo per scoprire il sottile e umile lavoro dell’artista prima della chiusura imminente della mostra.
*Lucia Piccioni, CIMA Fall Fellow.