Se non fosse stato per l’annuncio apparso a metà gennaio che il Whitney Museum, massimo specialista della pittura americana, aveva acquistato per la propria collezione permanente un quadro di Archibald Motley, pochi avrebbero prestato attenzione alla retrospettiva di questo artista che si era aperta nello stesso museo poco prima delle vacanze di Capodanno. Invece in questo modo una gran quantità di gente è accorsa nelle gallerie del nuovo immobile innalzato da Renzo Piano sulla riva dell’Hudson per vedere la mostra, intitolata Archibald Motley: Jazz Age modernist, prima della sua chiusura il 17 gennaio. Se non fosse andata così, ancora una volta questa importante testimonianza di uno dei più vitali periodi dell’arte americana, quello legato all’irruzione della musica jazz e agli anni della grande depressione sarebbe rimasta ignorata, come lo è stata per almeno mezzo secolo a questa parte, in cui l’opera di Motley è rimasta semisconosciuta.
La ragione di questa relativa ignoranza non è difficile da trovare. Motley (1891-1981) era quello che si usava chiamare un “sangue misto”, e la sua produzione, dedicata per la maggior parte a soggetti afro-americani, aveva avuto ancor meno fortuna presso critica e pubblico di quanta ne abbiano avuta in America altri pittori della stessa provenienza etnica, come per esempio Romare Bearden e Jacob Lawrence. Tutti questi protagonisti della cosiddetta “Harlem Renaissance” sono più o meno contemporanei e solo a cominciare dal nuovo millennio, con l’evoluzione avvenuta nei rapporti culturali tra le varie etnie, il loro apporto non solo alla pittura, ma alla stessa storia americana comincia a essere debitamente valutato.
Una rapida scorsa ai quadri di Motley è sufficiente per capire che dei contributi sopra menzionati, il suo non è il meno importante. Nato a New Orleans da padre bianco e madre afro-americana discendente da schiavi, immerso durante l’infanzia nella cultura dei blues, della gospel music e del nascente jazz, Motley si era trasferito a Chicago durante la grande ondata migratoria negra dal Sud al Nord degli Stati Uniti nei primi decenni del Ventesimo secolo. Qui, dopo aver seguito i corsi di pittura del famoso Art Institute (ed aver sposato una ragazza italoamericana), aveva cominciato a dipingere i soggetti suggeriti dalla vita tumultuosa, e insieme melodiosa e pittoresca, del ghetto afro-americano di Chicago, la cosiddetta Bronzeville o Black Belt del Sud della città; lo stesso quartiere descritto dal grande poeta della minoranza nera americana, Langston Hughes, e lo stesso in cui, non molti anni dopo, sarebbe avvenuta la maturazione politica di Barack Obama.
Abbassando il piano della prospettiva in direzione dello spettatore in modo da dargli una percezione vasta e accentuata della vivida narrativa, con colori dissonanti e luci al neon, i quadri di Motley offrono una visione nuova, insieme affettuosa e ironica, di gente povera, ma forte, spesso intesa a compensare i dolori di una vita difficile con una specie di esaltazione poetica consentita da una naturale sensibilità al colore e al ritmo. Nei ritratti, tuttavia, una precisa chiarezza di forme, una serena monumentalità e un’attenta gradazione del colore e delle ombre si richiama piuttosto allo stile classicheggiante, che nell’anteguerra americano – e particolarmente negli Anni Trenta – venne chiamato “precisionismo”.
Nell’insieme, una produzione pittorica che va dagli Anni Venti ai primi Anni Settanta, espressa in un linguaggio stridente e nostalgico, colloca Motley accanto agli altri grandi pittori che hanno interpretato la vita sui marciapiede e nei locali pubblici delle grandi città degli Stati Uniti, come Reginald Marsh e Thomas Hart Benton, arricchendo con note di grande originalità la memoria di un’epoca irrecuperabile della storia americana.