Una giovane donna dall’aspetto piuttosto austero, senza trucco, impugnando per strada la sua Rolleiflex all’altezza del petto, si riflette nella vetrata forse di un negozio. Ha già scattato. Insieme a lei, dietro di lei, New York. Alle sue spalle, in quell’istante del 10 settembre 1955, tra palazzi e automobili ferme, un uomo di colore attraversa tranquillamente la strada.
Si tratta di Vivian Maier (allora ventinovenne): la fotografa che ha realizzato, per così dire segretamente, nel corso della sua vita, 150.000 immagini senza mostrare o cercare di esporre il suo lavoro (tranne poche foto, a una ristretta cerchia di conoscenti), mantenendosi sempre con un impiego come bambinaia e badante e vivendo nelle case dei suoi datori di lavoro. Teoricamente, dunque. una fotografa dilettante.
Nata nel Bronx nel 1926 da madre francese e da padre austriaco, la Maier è diventata, dopo la sua morte nel 2009, un eclatante caso non solo mediatico, in seguito alla scoperta casuale dei suoi negativi, messi all’asta dal 2007 insieme a molti altri suoi oggetti personali, a 3.000 stampe e numerosi filmini Super8, abbandonati in un deposito dentro a decine di scatoloni, e ha investito come un tornado il mondo della fotografia, facendone scricchiolare canoni e certezze, sfidando le grandi istituzioni con i loro consueti criteri di musealizzazione. L’altissima qualità della sua produzione, venuta fuori da un’individualità del tutto appartata, che ha difeso ferocemente la propria solitudine e indipendenza, è risultata sorprendente come un dono inaspettato e ha riproposto con forza le domande sull’origine della creatività artistica.
Dal 20 novembre al 31 gennaio 2016, alla Fondazione Forma di Milano è possibile vedere una selezione di sue immagini, 120 fotografie in bianco e nero risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta e alcune immagini a colori degli anni Settanta, insieme ad alcuni filmati in Super8, esposti nella mostra Vivian Maier. Una fotografa ritrovata (che ha già fatto tappa negli scorsi mesi a Nuoro).
In pochi anni molto è già stato scritto su di lei, alimentando una sorta di mito che si nutre di slogan sulla bambinaia fotografa, sull’eccentrica solitaria o l’autosufficiente femminista, che però rischia di oscurare il suo lavoro.

Vivian Maier, Senza titolo, senza data
La Maier non si separava mai dalla sua macchina fotografica e scattava in continuazione, ossessivamente. Certamente la fotografia per lei era una necessità che dava struttura e significato alla sua esistenza. Fotografava anche se stessa (i suoi strepitosi autoritratti realizzati spesso con giochi di specchi sono ormai celebri), ma questo non le impediva, come accade spesso a chi è narcisisticamente ossessionato dai “selfie”, di rivolgere uno sguardo limpido, curioso e veramente empatico sulla realtà. La Maier si inserisce a pieno diritto nella Street Photography della seconda metà del Ventesimo secolo, avendo fotografato in primo luogo la città moderna, americana, le sue architetture, i suoi ambienti, i suoi abitanti: New York, dove vive fino a trent’anni, e Chicago, dove poi si trasferisce.
Nel secondo dopoguerra, ha la possibilità di immortalare New York in un momento di grande trasformazione, sia urbanistica, sia culturale: il vetro dei nuovi grattacieli degli anni Cinquanta, lo slancio della rinascita dopo il buio fitto della Grande Depressione. Tuttavia la sua attività sembra focalizzarsi soprattutto sul rovescio della medaglia, sulle zone d’ombra, sulla fatica di chi non ce la fa e sullo sforzo di chi rischia di non farcela: sulle contraddizioni sociali, sugli emarginati. A Chicago continua ad esplorare i quartieri più popolari e addirittura malfamati (e qui le immagini si fanno più dure che a New York), parallelamente alle serene zone residenziali in cui abita insieme alle famiglie per cui lavora, oltre a monitorare la crescita urbana degli anni Sessanta. Il suo occhio è guidato da un’acuta sensibilità sociale, i suoi scatti rivelano un’attenzione concentrata sui contrasti tra privilegiati e svantaggiati, che sia per motivi di ceto, colore, genere, età, o qualunque altra appartenenza.

Vivian Maier, New York Public Library, New York, 1952 ca.
Bambini che piangono disperatamente, signorine eleganti in posa davanti alla New York Public Library, signore attempate avvolte in stole di visone, homeless arresi alla vita, giovani garzoni che sorridono felici malgrado tutto, dettagli di scarpe – signorili o sfasciate – che diventano simbolo di una condizione umana, mani che si sfiorano, persone inquadrate di schiena, tallonate mentre camminano: momenti di vita delle metropoli americane, che complessivamente raccontano una storia collettiva.
Colpisce molto nella produzione di Vivian Maier il rovesciamento ovvero la perfetta specularità tra la riservatezza maniacale della sua vita privata e la sua empatica estroversione di fotografa di strada, che usa la fotografia come strumento privilegiato per conoscere e essere nel mondo. Con un tratto peraltro di paradossalità: la necessità di un diaframma – di un filtro, una barriera – per entrare in contatto con il mondo, per uscire da un isolamento fatto anche di sofferenza psichica, come emerge piuttosto bene dalle testimonianze di chi le è stato più vicino (registrate nel documentario del suo scopritore John Maloof Finding Vivian Maier; in versione italiana, Alla ricerca di Vivian Maier).

Vivian Maier, New York, senza data
I suoi comportamenti compulsivo-ossessivi e paranoici, l’accumulo patologico di giornali e oggetti di ogni tipo, insieme all’assenza di legami affettivi stretti, hanno suscitato una curiosità a volte morbosa sulla figura della Maier e hanno senz’altro contribuito a far sentire ancora più acutamente l’enigma della sua creatività. La tentazione di svelare il mistero di questa produzione, quantitativamente enorme e di livello artistico notevole, attraverso l’esplorazione della sua storia di vita, è molto forte soprattutto a livello mass-mediatico. Siamo però di fronte a una persona che ha cercato di proteggere la sua privacy molto energicamente, oltre che con l’anonimato perfino con l’uso di pseudonimi nella vita quotidiana, e non è affatto difficile immaginare che non avrebbe gradito tanto interesse su aspetti che niente hanno a che fare con le sue fotografie.
Ma soprattutto nessuna biografia, in sé, può veramente dare una risposta a questo tipo di interrogativo, nessuna biografia può spiegare in toto l’opera di un’artista. Viceversa, è attraverso l’opera che possiamo arrivare a conoscere e capire l’artista e, in parte, l’essere umano. Sempre tenendo presente il confine e lo scarto incolmabile tra vita e arte.