È il sogno di ogni direttore di museo: una coppia di astutissimi esteti dedica la propria vita a collezionare pezzi di assoluta avanguardia e crescente valore di mercato; dopo molti anni, in vista del viaggio di sola andata, scarica tutto in dono sul museo di cui si tratta. Questo sogno si è realizzato adesso, che più alla grande non si potrebbe, per due illustri musei d’arte contemporanea, il Whitney di New York e il Centre Pompidou di Parigi. Ad annunciarlo è il Whitney Museum, che ha anche avuto la buona idea di far subito beneficiare della sua buona fortuna i suoi visitatori organizzando, in collaborazione con l’altro, gli innumerevoli oggetti ricevuti collettivamente nella mostra che si apre al pubblico venerdì 20 novembre Collected by Thea Westreich Wagner and Ethan Wagner (ovviamente i due donatori, tutti e due americani, che cominciarono a raccogliere arte nel 1980 e non hanno ancora nemmeno smesso). L’esposizione rimarrà aperta fino al 6 marzo 2016, per poi varcare l’oceano e aprirsi il 9 giugno al Pompidou di Parigi.
In termini di numero, la donazione è una delle più straordinarie che si ricordi: al Whitney sono andati 550 pezzi, tutti a firma di artisti americani, in perfetta linea con la missione del museo di promuovere l’arte americana; al Pompidou, 300 opere, tutte di artisti europei. Ma è anche in termini di qualità che i pezzi sono straordinari.

Bernadette Corporation, Creation of a False Feeling (2000)
Dico subito che il vederli adesso – una vasta selezione naturalmente, tutti era impossibile – sparsi lungo le luminose sale del nuovissimo edificio del Whitney, creato da Renzo Piano sulla punta di Manhattan, è un’esperienza che tocca il trascendentale. Soprattutto per le sale affacciate direttamente sul delta del fiume Hudson e sull’orlo dell’Atlantico, sale spalancate su altri due strati di bellezza: le terrazze, con le sculture della collezione permanente del Whitney, e l’insostituibile sagoma dei grattacieli newyorchesi.
I curatori dei due musei, anzi le curatrici perché sono state tutte donne ad occuparsene e per lo più giovani e ridenti, con in testa Elisabeth Sussman per il Whitney e Christine Macel per il Pompidou, hanno disposto le opere tematicamente, seguendo ispirazioni e idee che serpeggiano nelle ultime generazioni indipendentemente dai media, dalla nazionalità degli artisti e dalle tecnologie usate. Per esempio, sfruttando il rapporto tra la parola e la materia, o la risonanza in vario modo mentale dello strumento pubblicitario, oppure l’ironia del banale quotidiano, o il commento politico, o il significato economico e di mercato.
Gli autori includono artisti ormai famosi, come Robert Gober, Jeff Koons, Richard Prince, Cindy Sherman, Christopher Wool, e giovani ancora poco conosciuti, ma già sorprendenti, come Philippe Parreno, Laura Owens, Heimo Zobernig, Hito Steyerl, Cheyney Thompson. La varietà delle reazioni suscitate in chi guarda è estrema, e forse mai come in nessun'altra mostra esse concorrono, o perlomeno hanno concorso su di me, a generare il fenomeno dell’intero ambiente come creazione d’arte, al punto da far parere, per esempio, una giacca abbandonata su una poltrona un’apparizione spirituale, o da farti chiedere se una fila di interruttori su una parete faccia deliberata parte della mostra oppure no.
Per concludere con una riflessione sul nuovo edificio del Whitney, voglio dire che questa esposizione è stata la prima per me a giustificare il trasloco dal vecchio, nobile edificio in pieno centro – quello che si prepara adesso a raccogliere le collezioni d’arte contemporanea del Metropolitan Museum – a questo gigantesco, mutevole blocco di cemento, cristalli, piani, terrazze e scale in riva al mare. Non lo avevo ancora compreso interamente, come una rivelazione che può avvenire solo in modo graduale.