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Arte e Design
June 18, 2015
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June 18, 2015
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Picasso a New York per chiudere un patrimonio di memorie

Mauro LucentinibyMauro Lucentini
Time: 3 mins read

I confini della già sterminata opera omnia di Pablo Picasso continuano ad allargarsi. Adesso è la volta di una trentina di disegni, dipinti, acquerelli, acquetinte e linocut, esposti a New York dalla galleria Benrimon a cui sono state affidate per la vendita da Marina Picasso, nipote del pittore. La mostra-vendita, intitolata Picasso: Femmes (nelle immagini, due delle opere esposte alla Benrimon Gallery) continuerà fino alla fine di giugno.

Marina discende dalla prima moglie del pittore, Olga Khokhlova, ballerina della compagnia dei Ballets Russes di Diaghilev che Pablo Picasso sposò nel 1918 essendo stato attratto, per la prima volta nella sua vita, dall’idea di entrare nella buona società a cui l’irreprensibile Olga apparteneva. Il matrimonio durò nove anni, dopo di che si frantumò sui frangenti dello spirito selvaggio dell’uomo e sulla sua impossibilità di accomodarsi alla monogamia nonché a un rigido imborghesimento, finendo con un’amara separazione da cui non lui, ma figli e nipoti uscirono sconvolti. Uno, il fratello di Marina, tormentato da complessi vari si suicidò.

t1

Guitare (1920)

Le opere della mostra newyorchese Picasso: Femmes, da cui Marina ha deciso adesso di separarsi, abbracciano tutto quel periodo per poi continuare fino a pochi anni prima della morte di Picasso, nel 1973. Sono quasi tutte ambientate sul paesaggio mediterraneo in cui Picasso era vissuto, a Cannes, con le sue numerose amanti e infine pacificamente con la seconda moglie Jacqueline per l’ultimo ventennio della sua vita, disseminando intorno a sé molte opere come come contributo al mantenimento della vasta figliolanza e discendenza prodotta dai numerosi rapporti. Marina e altri eredi hanno anche messo anche in vendita la villa “La Californie” in cui Picasso trascorse gli anni di Cannes, quasi a chiudere il più possibile un patrimonio di memorie non precisamente gradevole a tutti.

La mostra della Benrimon Gallery conferma ancora una volta che, a partire dal 1920, circa Picasso si esprimeva ormai indifferentemente in ognuno dei rivoluzionari linguaggi formali e pittorici da lui scoperti o adottati fino dalla giovinezza (il periodo cubista, per esempio, risale al 1907; quello cosiddetto geometrico è continuato fino alla morte), continuando anzi con suprema disinvoltura a sforzarne i limiti. Il che non gli impediva di adoprarne contemporaneamente altri perfettamente accademici, illuminati dalla incredibile scioltezza del suo disegno e sicurezza espressiva. Si irritava quando i critici dicevano che era impegnato in una ricerca, perché asseriva di avere già tutto dentro di sé e che si trattava solo di tirarlo fuori.

t2

Untitled (1964)

Tra questi nuovi disegni ce n’è uno in cui i lineamenti della donna ritratta sono dispersi sull’orizzonte, come tante api sull’azzurro di cui si sente però che appartengono a un solo sciame. “Le cose si vedono in un modo solo – disse una volta Picasso – ma questo solo fino a quando qualcuno non mostra che esistono anche altri modi”.

In fortuita contemporanea con questa mostra, e qualche settimana dopo la riapertura a Parigi del Musée Picasso, la New York Historical Society (il museo della storia americana) ha esposto per la prima volta dopo un restauro il pannello centrale del sipario di scena che Picasso aveva dipinto qualche mese dopo il suo incontro con la fatale Olga per la prima londinese del balletto El Sombrero de Tres Picos (anche detto Le Tricorne) dei Ballets Russes. Dopo varie peripezie il dipinto era finito in un corridoio di un ristorante di New York, poi ne era stato distaccato due mesi fa, restaurato e entrato nella collezione permanente del museo storico suddetto. È la rappresentazione insolitamente quieta su 2 metri per 2 di un intervallo di corrida, nella tradizione di Manet e di Goya, di una serenità classica che rispecchia il fondamentale spirito di Picasso impervio, quasi di spettatore e con il mostruoso egoismo del genio, alle molte tempeste della sua vita.

 

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Mauro Lucentini

Mauro Lucentini

Sono nato e vissuto a Roma che però ho abbandonato più di mezzo secolo fa per fare il giornalista in varie parti del mondo. Ne ho tratto una specie di complesso di colpa nei confronti della mia città natale, complesso che ho un po’ alleviato scrivendo da lontano una Grande Guida di Roma, che si vende in diverse lingue in diversi paesi. A New York venni per rimanerci tre o quattro anni, invece ci incontrai la ragazza più carina e dolce del mondo così ci sono rimasto, mettendo su, come si suol dire, famiglia. Lei però, pur essendo tanto più giovane di me, è poi scomparsa come un fiorellino che muore. In questa lunga carriera, cominciata quasi da bambino, ho sempre scritto sia di politica che di arte e di questo non mi pento.

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