Greenwich Village. 1991. Pomeriggio di ottobre. Richard Yates attraversa la strada trascinando la sua fedele bombola di ossigeno Mazda come se fosse un trolley da viaggio. Si siede su una panchina tra la Sixth Avenue e Bleecker Street. Avvicina il tubo alla bocca e aspira. Affonda la mano nella sua barba bianca e fissa il sottoscala buio e squallido ad angolo strada. È lì che ha vissuto nei primi anni Sessanta dopo che il suo matrimonio era andato in pezzi. Gli sembrava il posto migliore per scrivere il suo primo romanzo, Revolutionary Road, la storia di una giovane coppia, Frank e April Wheeler, che non riesce a comunicare, ingarbugliati tra nevrosi, bugie e aspirazioni. A quei tempi era sicuro che sarebbe stato in grado di trovare un posto migliore e forse addirittura una vita migliore una volta che il romanzo fosse stato pubblicato, ma si sbagliava: anche se aveva ottenuto tantissimi elogi e il libro era stato finalista del National Book Award, le vendite erano andate malissimo.
Adesso vive in un appartamento in affitto a Tuscaloosa, in Alabama, pieno di posacenere colmi e mobili dell’Esercito della Salvezza. La sua casa è piccolissima: una scrivania con una macchina da scrivere, un frigorifero pieno di birra e bourbon, alcune fotografie delle sue tre figlie e, appesa alla parete, una citazione di Adlain Stevenson: “Americans have always assumed, subconsciously, that every story will have a happy ending” (tradotto, “Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine”). Sono parole di Adlai Stevenson, la grande speranza democratica degli anni Cinquanta: candidato due volte alla presidenza e due volte sconfitto da Eisenhower, e infine superato da un concorrente dotato di carisma, gioventù e bellezza, John Fitzgerald Kennedy. Come ricorda Paolo Cognetti in minima&moralia, la frase che Yates ama, quella su cui medita scrivendo, è l’uscita di scena di un perdente: uno che avrebbe potuto cambiare le cose, ma non ce l’ha fatta, uno la cui storia non ha avuto nessun lieto fine.
Richard Yates tocca il taschino della giacca e apre il pacchetto di sigarette. Se uno guardasse solo le case non troverebbe poi tanta differenza tra passato e presente. Anche se tra quei due postacci c’è stato un trasloco a Hollywood per scrivere una sceneggiatura mai prodotta, un’auto distrutta sulla spiaggia, una casa in fiamme e il ricovero in ospedale. Una volta si è anche bruciato la barba in un ristorante. Si è sposato di nuovo, si è trasferito in Iowa, poi a Wichita, ha divorziato di nuovo, si è trasferito a Boston, poi infine a Tuscaloosa.
Aspira una profonda boccata, non dovrebbe fumare. Lo sa. Ma – se è per questo – gli fa altrettanto male bere e scrivere.
Dopo che è andato via da quell’appartamento ha pubblicato altri sei romanzi ma mai tanti quanti aveva sperato e i critici non gli hanno mai permesso di dimenticare quanto fosse bello il primo. Dopo che anche Easter Parade non ebbe il successo che meritava, Esquire l’ha definito “uno dei grandi scrittori meno famosi d’America”. La vera svolta letteraria della sua vita è stata quando l’editore Seymour Lawrence, a metà degli anni Settanta, gli ha corrisposto uno stipendio mensile e lui è riuscito a scrivere sei libri in poco più di un decennio anche se nel frattempo l’alcolismo e la depressione sono peggiorati.
Richard Yates distoglie lo sguardo dalla casa, scrolla la cenere dalla sigaretta e da un’altra boccata alla bombola di ossigeno Mazda.
Dall’altro lato della strada, Blake Bailey osserva lo scrittore, stropiccia gli occhi sotto la montatura spessa dei suoi occhiali. Lo raggiunge ed esclama: “Non ci credo, sei davvero a New York?”
“Non è rassicurante sapere che il mio biografo non crede alla mie stesse parole.” Richard Yates allunga le labbra in un sorriso sotto la barba bianca. “Chissà se dici lo stesso anche a John Cheever e Philip Roth.”
Blake Bailey ignora la freddura contro gli altri autori di cui sta scrivendo la biografia e si siede accanto a lui. Guarda nella stessa direzione dello scrittore. “Ma certo, quello è il tuo vecchio appartamento, giusto? Quello dove hai scritto Revolutionary Road. Il tuo libro contro la famiglia.”
“Come dissi in una vecchia intervista penso che lo intendessi più come un atto d’accusa contro la vita americana negli anni ’50. Perché durante quegli anni c’era un desiderio generale di conformismo: una sorta di cieco, disperato attaccamento alla sicurezza e alla protezione a ogni costo. E questo è un totale tradimento del nostro migliore e più coraggioso spirito rivoluzionario, e questo era lo spirito che cercavo di incarnare nel personaggio di April Wheeler. Il titolo intendeva suggerire che la strada rivoluzionaria del 1776 era arrivata a qualcosa di molto simile a un vicolo cieco negli anni Cinquanta.”
“Ma perché sei qui? Ti serve per Uncertain Times, il tuo futuro romanzo a cui stai lavorando da cinque anni? Visto che sei a New York, possiamo passare dal tuo agente, cerchiamo di strappare un buon anticipo così ti decidi pure a finirlo prima.”
“No, non mi interessa adesso. Come dissi una volta ad Andrè Dubus, io non voglio soldi, voglio lettori.” Sospira senza togliere lo sguardo dal suo vecchio appartamento. “Sai che mentre ero in quello scantinato a scrivere Revolutionary road mi son bloccato. Non riuscivo più andare avanti con quella storia e sai cosa ho fatto? Ho scritto il racconto Costruttori. Te lo ricordi, biografo?”
“Si, certo. È un racconto che dovrebbe essere presente in tutte le scuole di scrittura. Sia per la frase oggi non ho avuto tempo di scriverti una lettera breve; perciò, ho dovuto scrivertene una lunga sia per quell’idea della creazione di una storia che è proprio come costruire una casa con fondamenta, le mura, un tetto ma che non bisogna mai dimenticare le finestre. Perché è lì che entra la luce. Cioè la filosofia della storia, la verità, la sua… illuminazione, per così dire.”
“Ti ricordi anche il finale biografo?” Richard Yates afferra il libro Undici solitudini incastrato accanto alla bombola di ossigeno e lo porge a Blake Bailey. Poi si alza e si incammina lentamente verso la metropolitana.
L’uomo apre il libro e va direttamente all’ultimo periodo del racconto: “Forse la luce deve cercar di penetrare come può, attraverso qualche fessura, qualche buco lasciato dall’imperizia del costruttore. Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi”.
Blake Bailey osserva Richard Yates scendere lento le scale della metropolitana, ancora alla ricerca della finestra che illuminerà la sua vita.
Richard Yates morirà l’anno successivo per complicazioni postoperatorie dopo un piccolo intervento chirurgico, lasciando Uncertain Times incompiuto. Il manoscritto rimarrà inedito (tranne che per un frammento pubblicato dalla rivista newyorkese Open City), e a tutt’oggi non si sa se esista ancora. La riscoperta e la fama di Yates avverranno gradualmente. Nel 1986 The Easter Parade verrà menzionato nel film Hannah and Her Sisters di Woody Allen che dichiarerà di amare moltissimo il romanzo.
Nel 2001 il New Yorker pubblicherà due racconti e alcuni scrittori, come Michael Chabon e Tobias Wolff, si offriranno volontari per promuovere con una serie di letture pubbliche le opere di Yates in giro per gli Stati Uniti. Sull’onda del rinnovato interesse per la vita e per l’opera di Yates nel 2003 Blake Bailey riuscirà a pubblicare la biografia A Tragic Honesty: The Life and Work of Richard Yates.
Nel 2009 Sam Mendes dirigerà il film Revolutionary Road interpretato da Leonardo DiCaprio e Kate Winslet. I suoi romanzi verranno gradualmente ripubblicati e tradotti in molte lingue e Richard Yates verrà considerato uno dei più grandi autori americani. Tutto questo contribuirà a realizzare, sia pure in maniera postuma, l’aspirazione di Yates: io non voglio soldi, voglio lettori.