Chi ha vissuto intensamente gli anni Sessanta, e ama il cinema, non può non aver amato Norman Jewison, regista e produttore canadese dotato di una versatilità artistica fuori dal comune, capace di variare dalla commedia romantica al dramma razziale, dal musical al thriller, dal Vietnam all’aborto. Per uno spettatore cinefilo lui era “una sicurezza”. E lo era anche per i suoi attori, visto che ben 12 di essi, grazie alla sua riconosciuta bravura nell’ottenere ottime interpretazioni dai suoi cast, sono stati poi candidati agli Oscar (tra gli altri, Nicolas Cage, Cher, Meg Tilly, Alan Arkin).
Eclettico, se non proprio scatenato nel saltare da un genere all’altro, Jewison, pur se candidato per sette volte come Migliore regia, non ha invece mai vinto una statuetta dorata: molto probabilmente perché ha sempre puntato il dito contro le storture di qualunque sistema, sociale, politico o religioso che fosse. In compenso, però, vantava nel suo curriculum l’aver ricevuto nel 1999 il prestigioso Irving G. Thalberg Memorial Award dalla Academy of Motion Pictures Arts and Sciences, che consiste in un busto del leggendario direttore della Divisione Produzione della MGM e celebra i “produttori creativi, i cui lavori riflettono delle continue produzioni cinematografiche di alto livello”.
Durante tutta la sua carriera Jewison non ha mancato di sottolineare l’assurdità sociale del razzismo, d’altronde lui stesso aveva toccato con mano la piaga della segregazione razziale in America quando, giovanissimo, dopo aver fatto l’autostop da Toronto a Chicago, era salito su un pullman a Memphis e l’autobus, dopo una falsa partenza, si era fermato: era “colpa” sua perché si era seduto in fondo, nella parte riservata ai neri, mentre i bianchi come lui avevano diritto ai posti davanti. Il diciottenne futuro regista scese a terra e arrivò con un altro mezzo nella “città del vento”.
A Chicago cominciò a dirigere speciali musicali per la televisione, e tra questi, nel 1960, uno con Harry Belafonte, primo special sulla tv americana con un cantante di colore. Approdato ad Hollywood, dopo una serie di piacevoli commedie, quali 40 Pounds of Trouble-20 chili di guai!… e una tonnellata di gioia! (1962, con Tony Curtis e Suzanne Pleshette), The Thrill of It All-Quel certo non so che (1963, con Doris Day) e Send Me No Flowers-Non mandarmi fiori (con Doris Day e Rock Hudson), Norman Jewison offre quello che ancora oggi è uno dei migliori film sul poker mai girati, Cincinnati Kid (1965, con Steve McQueen): subentra ad un ingestibile Sam Peckinpah ed offre una vera prova di maturità per una sorprendente complessità estetica e narrativa.
Nel 1967, seguendo il consiglio di Robert Kennedy, Jewison si fece carico del progetto dell’indimenticabile poliziesco, su uno sfondo razziale) In the Heat of the Night-La Calda Notte dell’Ispettore Tibbs – cinque Oscar, tra cui quello per Migliore film e ad Hal Hashby per il montaggio: con Sidney Poitier, nella parte del detective nero di Filadelfia Virgil Tibbs, e Rod Steiger (in quella di un commissario accanitamente razzista), impegnati entrambi a risolvere un caso di omicidio nel profondo sud degli Stati Uniti. Quattro giorni prima degli Oscar, Martin Luther King venne assassinato e la cerimonia fu sospesa per due giorni. Mike Nichols vinse come miglior regista con Il Laureato, ma il film di Jewison portò a casa cinque statuette.
In the Heat of the Night è un po’ il manifesto di un regista che nel suo impegno civile tende la mano allo spettatore e lo introduce in vicende allegoriche in grado di smuovere le coscienze. Il film fu il primo di una trilogia del regista canadese sulla piaga del razzismo. Seguirono infatti poi A Soldier’s Story- Storia di un soldato (1984, un racconto drammatico sulle disparità tra bianchi e neri nell’esercito statunitense anche in tempo di guerra, passando dalla segregazione razziale alle leggi di Jim Crow che la stabilirono giuridicamente in alcuni Stati del sud) e Hurricane-Il grido dell’innocenza (1999, con Denzel Washington nella parte di Rubin ‘Hurricane’ Carter, un pugile – allora in procinto di combattere per il titolo mondiale dei medi contro Joey Giardello – accusato di omicidio da una giuria tutta bianca e che trascorse ingiustamente 24 anni in carcere. Bob Dylan compose una canzone sul pugile – Hurricane – per l’album Desire, nel 1976). Norman Jewison ha portato avanti l’idea, come dicevo prima, di un cinema che punta il dito contro le storture del sistema (e in questo senso il suo “avatar” è l’avvocato di …And Justice for All-…e giustizia per tutti, 1979, con Al Pacino, Jack Warden e Lee Strasberg).
Lo ha fatto senza essere retorico o moralista, contando su una solida padronanza degli strumenti tecnici di cui fa uso e di un’attenta analisi di ciò che lo circonda: lo testimoniano il rocambolesco The Thomas Crown Affair-Il caso Thomas Crown (1968, con l’arguto rapinatore Steve McQueen e la detective Faye Dunaway impegnati in folle corsa sulla spiaggia a bordo di una Dune Buggy guidata da McQueen stesso senza controfigura e alcune delle immagini più bollenti del cinema americano, complici il montaggio di Hal Ashby, la fotografia di Haskell Wexler e le musiche di Michel Legrand); Rollerball (1975), variazione distopica (futuro oggi già passato, visto che si parlava del 2018) del sentimento paranoico tipico della New Hollywood, in cui uno sport violentissimo assolve alla funzione del cosiddetto “panem et circenses”; F.I.S.T. (1978), ispirato al sindacalista Jimmy Hoffa (Il film racconta le vicende personali, la carriera e le lotte di Johnny Kovak, un lavoratore che, grazie al suo carisma, diventa un dirigente sindacale. Contrastato con violenza dai suoi datori di lavoro, per organizzare un duro sciopero Johnny chiede aiuto alla mafia, ma questa sua scelta condizionerà la sua carriera e la sua vita); In Country-Vietnam: verità da dimenticare (1989, con Bruce Willis) sullo stress post-traumatico dei veterani di guerra; Other People’s Money-I soldi degli altri (1991, con Danny De Vito, Penelope Ann Miller e Gregory Peck) contro gli eccessi del liberalismo.
Concludo questo “saltellante ritratto” del bravissimo Norman Jewison e delle sue storie dal fascino universale, e che sono ancora oggi, per certi versi, assolutamente contemporanei, come il bizzarro e irresistibile giallo tra spirito e spiritualità Agnes of God-Agnese di Dio (1985), in cui moderna psichiatria e fede nei miracoli finiscono per scontrarsi; romantica: Fiddler on the Roof-Il violinista sul tetto (1971, con Chaim Topol e Candy Bonstein), in cui il violinista ha un ruolo metaforico, indicando la precarietà della vita degli ebrei, senza una patria e costretti a destreggiarsi e a mantenersi in equilibrio fra popolazioni e governanti spesso ostili: l’unica cosa che impedisce loro di finire a gambe all’aria è l’osservanza delle tradizioni, che regolano ogni aspetto della loro vita. Il film mette in evidenza l’ironia sottile e al tempo stesso caustica del regista nell’indimenticabile scambio di battute tra Abraham e il rabbino: “Che notizie ci sono nel mondo, Abraham? – Terribili, rabbino, terribili – Allora non dirmele. Se voglio brutte notizie, leggerò di Noè e del diluvio”. Più altri due indimenticabili musical di indubbio valore, tanto in termini di commedia, quanto di cinema di impegno civile: Jesus Christ Superstar (1973): una spettacolare narrazione della Passione di Cristo in cui la figura di Gesù trova un’umanità sì influenzata dalla controcultura ma così ben radicata da aver colpito anche Il Papa di allora, San Paolo VI; Moonstruck-Stregata dalla luna (1987), grande successo al botteghino e agli Oscar (tre) che fa ironia sugli emigrati italoamericani senza però scadere nei luoghi comuni.
Nel 2003 l’ultimo film di Norman Jewison: The Statement- La sentenza con Michael Caine e Tilda Swinton: ispirato alla vicenda di Paul Touvier, un ufficiale di polizia del governo di Vichy che ordinò l’esecuzione di sette uomini ebrei e fu arrestato dopo una lunga latitanza, favorita da settori integralisti della chiesa cattolica francese, nel 1994 e condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità.