Lasciatemi costruire questo breve articolo in capitoli, come un breve romanzo.
Capitolo primo. Quando entro per la prima volta nel mio ufficio all’Istituto di Cultura, due anni fa, vedo appeso al muro un ritratto ovale di Garibaldi. Un Garibaldi giovane, con la barba biondo-rossiccia, già con una fisionomia “nazarena” che porterà spesso a fondere il suo volto con quello di Cristo, in tante immagini risorgimentali.
L’inventario dice che il ritratto è accompagnato da un’autentica. Penso a un documento scritto da un antiquario o da una galleria d’arte, e chiedo che venga estratto dalla cassaforte dell’Istituto per vederlo. Quando me lo portano mi accorgo che in realtà non si tratta di una semplice autentica, ma di una lettera autografa di Garibaldi.
Da bravo filologo mi metto a decifrarla e a trascriverla. L’inchiostro è in parte svanito, ma la calligrafia è chiara. Ecco il testo:
New York 28 ottobre 1859
Il mio ritratto di cui si compiacque il Sig. Illustrissimo Gerosa, fu preso da lui stesso, nel mio primo soggiorno in questa città – G. Garibaldi
Da questa lettera apprendiamo un po’ di cose. In primo luogo si svela il nome dell’autore – Gerosa appunto – che altrimenti sarebbe ignoto, dato che a occhio nudo non si vedono tracce di firma.
In secondo luogo è chiaro che il dipinto va datato al 1850/51 dato che il documento parla del “primo soggiorno” a New York. Garibaldi arriva per la prima volta a New York nel 1850, accolto dall’entusiasmo della stampa. Il 30 luglio di quell’anno il New York Tribune pubblica la seguente notizia: “Questa mattina è giunta da Liverpool la nave Waterloo con a bordo Garibaldi, l’uomo di fama mondiale, l’eroe di Montevideo e il difensore di Roma”.

Il ritratto non può essere posteriore al 1851, quando Garibaldi riparte per il Perù. Insistendo sulla presenza di Garibaldi a New York durante l’esecuzione, il documento ci dice anche che il ritratto è stato fatto “dal vivo” e non su alti ritratti. Rispetto a tanti Garibaldi elaborati “agiograficamente”, il ritratto appeso nel mio studio è dunque basato su uno studio dal vero, e testimonia una fisionomia probabilmente molto vicina a quella reale. Infine il ritratto non è commissionato da Garibaldi, ma voluto dallo stesso Gerosa (“di cui si compiacque”).
In terzo luogo la chiarezza della scrittura fa capire che il manoscritto autografo non è appunto privato ma è davvero una specie di “autentica”, destinata al proprietario del ritratto, che però non può essere Gerosa, al quale non servirebbe sapere che è proprio lui il pittore. Rileggo l’autografo e penso che non ho nessun dato per capire da dove venga quell’opera, e chi dopo Gerosa l’abbia posseduta. In Istituto non ci sono documenti che ne parlino.
Capitolo secondo (che apparentemente non ha legami col primo). Qualche mese fa arriva in Istituto una delegazione da Lendinara, una città storica in provincia di Rovigo. Vengono a New York nel nome di Adolfo Rossi.
Partito per l’America nel 1879, a ventidue anni, con un gruzzoletto che gli viene rubato durante il viaggio, Rossi a New York si arrangia e fa un po’ di tutto per sopravvivere. Impara il mestiere di gelataio e poi di cameriere, vende ventagli e acqua gassata, finché, nel 1880, Carlo Barsotti gli affida “Il Progresso Italo Americano”, nato in concorrenza con l’”Eco d’Italia”. Su quelle pagine Rossi scopre la sua vera vocazione, iniziando una lunga e fortunata carriera di giornalista che continua in Italia, dove torna nel 1884.
La delegazione è venuta dal Polesine a cercare le tracce proprio di quel primo soggiorno americano. E il bibliotecario di Lendinara, Nicola Gasparotto, con entusiasmo mi racconta degli articoli di Rossi scoperti a New York negli antichi numeri del Progresso. Alcuni di quegli articoli costituiscono addirittura la prima redazione del fortunato volume “Un italiano in America”, pubblicato nel 1892 dal principe degli editori italiani: Treves. Un libro che sarà seguito nel 1893 da Un italiano in america, altrettanto brillante nel dipingere pregi e difetti del nuovo mondo, e la sua brutalità “economica”, la sua intolleranza, il suo frequente razzismo.

In quei giorni sto preparando la mostra “Pride and Memory. The Italian Emigration in the Americas” che aprirà in Istituto a breve (il 28 giugno), e dico alla delegazione da Lendinara: mandateci materiali su Alberto Rossi. Accanto alla documentazione che riguarda gli emigrati come “oggetti” della migrazione – poveri, sofferenti, analfabeti – vogliamo avere in Istituto anche la prova che gli Italiani sono stati capaci di essere “soggetti” di quell’epico esodo dalla madrepatria. Hanno avuto occhi per vedere, cuore e spirito per giudicare, voce per parlare e per scrivere. Si sono adattati, ma hanno saputo anche cambiare il mondo in cui sono approdati. Rossi è l’esempio e l’emblema del carattere attivo e creativo dell’emigrazione. Della capacità degli emigranti di essere protagonisti del loro destino.
Capitolo terzo (che lega i primi due). Affare fatto. Da Lendinara ci manderanno gli oggetti, i libri di Rossi, e anche la divisa e la spada di quando venne creato Ministro Plenipotenziario per l’Italia a Buenos Aires.
E io comincio a leggere con grande divertimento i suoi libri. Comincio con Un italiano in America, e arrivo al capitolo in cui l’autore racconta del suo incontro con Meucci.
Adolfo Rossi va a trovare l’inventore del telefono anche per avere notizie inedite su Garibaldi, che ha vissuto nella casa dei Meucci a Clifton (Staten Island) tra il 1850 e il 1851. E racconta dei ricordi (o meglio delle reliquie) che Garibaldi ha lasciato a Meucci: “una camicia: la camicia rossa che il Generale indossò nella difesa della Repubblica Romana … un pugnale con manico d’argento massiccio … una medaglia di bronzo …un cameo col suo ritratto … un ritratto di grandezza naturale fatto dal pittore Gerosa nel 1851…”.
Rileggo incredulo.
Ė proprio vero: un ritratto, e l’autore è Gerosa. Si tratta dunque del ritratto nel mio studio. Coi suoi occhi quel giovane barbuto dentro una cornice dorata ha visto non solo Garibaldi e Meucci ma chissà quanti devoti che lo hanno guardato con commozione! Rimane ignoto il suo percorso fino all’Istituto, anche se sarebbe bello sapere come ci sia arrivato.
Un fatto è certo il dipinto si carica di suggestione straordinaria perché evoca il ricordo, e direi quasi la presenza non solo di Garibaldi ma di altri due grandi italiani a New York: Meucci e Adolfo Rossi. Per questo motivo sarà esposto all’inizio del percorso espositivo della mostra “Pride and Memory”. “Orgoglio e memoria”: vibrano entrambi nell’immagine garibaldina che ci ricorda il potente, indissolubile legame con la nazione di tutti gli italiani all’estero, allora come oggi.