L’Accademia della Italiana della Cucina a New York ha unito in questi giorni (il 17 Ottobre) le due sezioni per la cosiddetta “Cena Ecumenica”, che si è svolta all’Osteria Brooklyn (1-50 50th Avenue, Long Island City), introdotta dai delegati Berardo Paradiso e Roberta Marini De Plano.
La serata ha fatto scoprire a molti la bellezza di questa parte della “Greater New York”. Un magico panorama di luci acque e stelle si disegnava al di fuori delle vetrate del ristorante, facendo venire il dubbio che per vivere e apprezzare Manhattan bisogna vederla dall’altra sponda. Dentro il locale si svolgeva intanto un’esercitazione di stile da parte dello chef e proprietario Raffaele Salinas. Gli era stato chiesto di interpretare gli ingredienti forse più rappresentativi della cucina italiana: i legumi.
La missione dell’Accademia parte proprio di lì: dal riconoscimento del lessico essenziale della tradizione, che poi gli chef esplorano con un giusto e delicato equilibrio tra storia e innovazione. Ma forse sarebbe più giusto parlare al plurale trattando di Italia, e dunque non di tradizione ma di tradizioni. Tante quante sono le regioni o forse i comuni o forse i quartieri, grazie a una biodiversità unica al mondo. Talvolta la morfologia e la sintassi restano le stesse (in fondo quasi dovunque in Italia si rispetta la sequenza antipasto pasta/zuppa/ secondo e contorni, dolce), ma è proprio il repertorio di base che muta, perfino all’interno della stessa città.
Quando si va in un mercato italiano e si decide per esempio di comprare il radicchio, da una bancarella all’altra si viaggia tra la varietà trevigiana, quella chioggiotta, la castellana e la veronese, per giungere magari alla bellezza superba e delicata della “Rosa di Gorizia”. Così accade per i legumi. Quante varietà di lenticchie abbiamo nella penisola? si è chiesto Berardo Paradiso, elencandone alcune in un immaginario viaggio tra territori diversi.
Le cene Accademiche sono anche un modo di uscire dal provincialismo dei gusti, e accettare l’Italia per quello che è: il luogo delle differenze. Chi pensa che la “pasta e fagioli” sia solo la sua è come l’italiano che crede che la sua lingua sia la migliore tra tutte le altre. Dante definisce perfino i Toscani come degli “ubriachi” quando considerano il loro volgare come il migliore, anzi l’unico. Lo stesso accade all’Accademia della Cucina, i cui incontri sono un modo per riconoscere la varietà, l’infinita ricchezza delle memorie culinarie che convivono nella penisola.
A questo mirava il volume distribuito durante la cena e legato al tema della serata: I fagioli, i ceci ed altri legumi, articolato su base regionale non esaustiva ma almeno indicativa. C’è ancora molto da esplorare in questa direzione. Da veneto, per esempio, sono andato subito a cercare quelli che per me sono i piatti più rappresentativi della mia regione in fatto di legumi. Non ho però trovato i mitici risi e fasoi duri della zona polesana, così come non ho trovato la pasta e fagioli alla veneziana della quale si trovano ricette fin dal ‘500.
Lo chef ha saputo equilibrare tradizioni regionali diverse, alleggerendo le ricette con un delicato bilanciamento tra la prepotenza dei gusti tradizionali e il nostro palato abituato a sapori meno forti. Si è partiti con bicchierini di ceci e mousse al pecorino, un ottimo pane carasau con canellini, gamberetti e rosmarino. Si è passati a capesante appena scottate, accompagnate da fave – solo parzialmente passate – e leggeri tocchi di guanciale. Il primo piatto era una pasta, fagioli e cozze (e così dalla Toscana, e Sardegna ci si spostava alla zona napoletana), per passare a un maialino ricucito (in sostanza una piccola porchetta) con lenticchie, bacche, cavoletti di Bruxelles, mandorle e una riduzione di sangiovese (sulla quale alcuni ospiti hanno espresso dei dubbi, per la dolcezza). A conclusione un soufflé ai ceci coronato da un frizzante gelato al peperoncino e miele.
Si occupava dei vini intanto Anelito Antonelli (Elevation Wine Partners) che ha proposto un viaggio interessante attraverso vitigni sardi. La cena è stata accompagnata prima da un Vermentino giovane (2023), poi da un Monica (2023) che molti commensali hanno scoperto e apprezzato per la prima volta, e infine da un più strutturato Cannonau (2022). Già interessante la scelta delle bevande per gli antipasti: a un Prosecco e sciroppo alla zucca piccante e menta si alternava un Dr. Fisher Steinbock, ovvero un Riesling frizzante non alcolico, secondo una tendenza che mira a mantenere il gusto del vino, abbassandone le calorie.
Generalmente soddisfatti gli ospiti, anche se le riserve non mancano mai nelle cene accademiche, e festeggiati alla fine sia lo chef sia il sommelier.
Durante la cena Fabio Finotti e Berardo Paradiso hanno raccontato alcuni capitoli della storia dei legumi in Italia. Dal primato delle fave, al trionfo del fagiolo comune, un altro regalo delle Americhe dopo il viaggio di Colombo. E gli ospiti hanno così scoperto che i legumi in passato erano un cibo con una decisa connotazione sociale: venivano considerati adatti per le classi più popolari, rappresentate nel celebre Mangiafagioli di Annibale Carracci (1584-1585).
Eppure alla fine gli aristocratici non disdegavano affatto i legumi. Non dicevano i trattati medici che i legumi trattavano diverse patologie al fegato, ai reni, e soprattutto che erano un potente rimedio per l’impotenza maschile?
Forse per questo Caterina de’ Medici provvide a portarsene una buona scorta quando andò sposa al futuro re Enrico II. Non aveva tutti i torti se solo si ripercorre l’elenco dei suoi figli, tra i quali compaiono ben tre re di Francia: Francesco, Elisabetta, Claudia, Luigi, Carlo, Enrico, Margherita, Francesco Ercole, Vittoria e Giovanna. Niente male.
Dev’essere proprio vero quello che diceva Ippocrate: “Fa che il cibo sia la tua medicina”. Soprattutto – andrebbe aggiunto – prima di ammalarti.