Al 76mo Festival di Cannes, in corso fino a sabato 27, è tornato il grande cinema di Marco Bellocchio. Dopo il bellissimo documentario Marx può aspettare del 2021 e la profonda, avvincente serie tv Esterno notte dello scorso anno, ieri l’anteprima mondiale del suo nuovo lungometraggio, Rapito, omaggiato da tredici minuti di applausi a scena aperta: la più lunga standing ovation finora registrata sulla Croisette!
Ispirato dal libro Il caso Mortara di Daniele Scalise, il lungometraggio è la storia vera del bambino ebreo che nel 1858 fu strappato alla sua famiglia a Bologna, per essere allevato da cattolico sotto la custodia di Papa Pio IX, suscitando un caso internazionale. Secondo le dichiarazioni di una domestica, infatti, il bambino era stato segretamente da lei battezzato quando aveva sei mesi, poiché ritenuto in punto di morte e altrimenti destinato al Limbo. A quel punto per le disposizioni del Concilio di Toledo del 633, il bambino doveva crescere da cristiano. I genitori di Edgardo Mortara, sconvolti, fanno di tutto per riavere il figlio, ma il Papa non accetta di restituirlo ed Edgardo cresce nella fede cattolica, proprio mentre il potere temporale della Chiesa sta volgendo al termine, e le truppe sabaude conquistano Roma con la Breccia di Porta Pia.

I connotati della storia, i suoi riferimenti storici, politici, sociali e religiosi sono talmente pregnanti da aver attirato l’attenzione, prima ancora di Bellocchio, di Steven Spielberg, come ha ricordato il regista piacentino in conferenza stampa. “Spielberg – ha detto – stava preparando un film su Edgardo Mortara ed aveva contattato vari colleghi. Ha fatto alcuni sopralluoghi e diversi attori erano già stati contattati, tuttavia, il progetto si è poi interrotto perché non ha trovato il bambino giusto. È un film che non si può fare in una lingua che non sia italiano, con i suoi accenti regionali, latino e ebraico. Farlo in inglese avrebbe voluto dire fare un’altra pellicola”.
Con Rapito continua il ragionamento di Bellocchio sul potere, sulla Storia ma vuole essere anche una condanna di ogni degenerazione ideologica, di ogni fondamentalismo, anche quello religioso, e una messa alla berlina delle convenzioni ed ipocrisie del nostro paese e della nostra storia. È insomma anche un ritorno ai toni dolorosi di L’ora di religione, ma questa volta con un film in costume, potente nell’intreccio e tragico nel suo svolgersi. Un grande film sulla violenza, il potere, la religione e girato con rispetto dei personaggi e della storia, evitando macchiettismi ed inutili apologie, di singoli o storiche.
“Non ho fatto un film – ha spiegato il regista piacentino – per andare contro il Papa, né per salvarlo. C’è un principio che riguarda l’intolleranza, certi dogmi devono essere rispettati, pena la fine della religione stessa: questo non giustifica il Papa e ha prodotto una violenza estrema. In questa storia, il papa è il cattivo, ma non è quello che volevo mostrare”.
Insomma, l’obiettivo del film non è dare scandalo, ma – come già fatto dal regista nel 1965 con I pugni in tasca – far riflettere, qui attraverso una storia passata, su come è cambiata l’Italia. Riflessione anche religiosa, su una Chiesa- monarchia che vuole liberare l’animo e allo stesso tempo esercita violenza. Tanti i momenti di riflessione religiosa che suggerisce Rapito. Quando, in una scena onirica, Edgardo leva i chiodi dal crocifisso, quasi a togliere agli ebrei la colpa di aver ucciso Cristo, e Gesù scende, si toglie la corona di spine, lo guarda e si allontana: l’arroganza degli uomini crea una frattura con la preghiera, vuole dirci Bellocchio, cresciuto in una famiglia religiosa ma ateo. O quando vengono rappresentati in parallelo, riti e penitenze, tanto della famiglia ebrea riunita, quanto del glaciale funzionario papale monsignor Feletti.

Su tutto il film aleggia una domanda: chi ha battezzato il piccolo Edgardo? Il suo rapimento è stato deciso da monsignor Feletti dopo le dichiarazioni della domestica di casa Mortara o invece Edgardo non era mai stato battezzato, e quel “dobbiamo battezzarlo subito”, detto da Pio IX in una sequenza tra incubo e realtà, dimostrerebbe che sia stato un caso imbastito a uso e consumo della Chiesa?
Un dato storico, non narrato nel film: nel 2004, lo scrittore Vittorio Messori, lavorando negli archivi dei Chierici Regolari Lateranensi, ha scoperto l’autobiografia inedita dello stesso Edgardo Mortara, poi religioso missionario e morto in un monastero quasi novantenne: in essa, scritta nel 1888, a 37 anni, padre Mortara spiegò la vicenda, facendo un’apologia della Chiesa Cattolica e di Pio IX, Papa diffamato dalla pubblicistica laica ma beatificato poi da Giovanni Paolo II e che, nella percezione del piccolo Edgardo, era stato come un padre.
Il film, sceneggiato da Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati e Daniela Ceselli, è interpretato da Paolo Pierobon (il Papa), Fausto Russo Alesi (il padre di Edgardo), Barbara Ronchi (la madre), Enea Sala (Edgardo da bambino), Leonardo Maltese (Edgardo ragazzo), Filippo Timi (il cardinal Antonelli), Paolo Calabresi (portavoce della comunità ebraica) e Fabrizio Gifuni (Monsignor Feletti, padre inquisitore domenicano).
Marco Bellocchio ora sta lavorando ad una serie tv su Enzo Tortora centrata sull’uomo, e sul personaggio televisivo cresciuto con l’enorme successo di Portobello. Ormai è chiaro a tutti come la vicenda Tortora sia stata una ingiustizia orribile. Assolto nel processo per droga, il giornalista fu riammesso in televisione con Portobello, qualcosa però si era rotto in lui e morì un anno dopo. Un titolo per la serie potrebbe essere La colonna infame, libro che Tortora volle fosse messo sulla bara ai funerali.
Rapito sarà nelle sale italiane da domani, 25 maggio, con 01 Distribution.
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