Caro Gioacchino (se posso),
scrivo questa lettera commossa, a te che tra il 1996 e il 2000 hai diretto l’Istituto di Cultura di New York, di cui sono io ora il direttore. Te ne sei andato ieri, 10 maggio, ma la tua presenza qui è ancora vivissima. Nel pianoforte, grazie al quale proprio questa settimana si sono svolte le audizioni del Premio Paganini. Nelle collezioni librarie. Nella vibrante memoria delle tue iniziative.
Non solo qui, ma in ogni tua attività – docente universitario, direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica e Coro di Roma della RAI, sovrintendente del Teatro di San Carlo di Napoli, presidente della giuria che annualmente assegna il premio letterario dedicato alla memoria di tuo padre adottivo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa – sei stato quello che ogni italiano dovrebbe essere: un paladino della bellezza. Non della bellezza archeologica, mummificata, ma di quella capace di rinascere dalle sue ceneri come l’Araba Fenice. La bellezza infinita e perenne che rende ancora oggi l’Italia un crogiolo di creatività, di intelligenza e di fantasia.
Io credo che proprio questa tua passione per la bellezza ti abbia guidato verso la musica, cui hai dedicato tante energie sia in qualità di organizzatore, sia in qualità di scrittore. E non verso la musica in generale, ma verso l’opera lirica in particolare. L’opera sembra racchiudere tutti gli elementi della bellezza italiana: il profondo senso armonico e melodico, lo straordinario fascino della lingua, la magica invenzione di scene e costumi che giocano tra realtà e fantasia, la dimensione teatrale e gestuale. E soprattutto la collettività. Nulla come l’opera rappresenta la capacità degli italiani di lottare tra di loro, ma anche di “suonare assieme” quando è appunto la bellezza a guidarli.
Sono nati da questa tua passione saggi e libri che restano non solo nelle nostre biblioteche ma nei nostri cuori. Sono chiavi indispensabili per entrare nello scrigno del melodramma, il nostro maggior tesoro nazionale: il Gusto del silenzio rossiniano, la Guida all’opera, i magnifici volumi dedicati a Vincenzo Bellini e alla Norma.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa ti aveva adottato come figlio e sui Luoghi del Gattopardo avevi composto un bellissimo volume pubblicato da Sellerio. Era dunque una paternità non solo familiare ma in primo luogo spirituale quella che vi legava, e che ispirava tanti altri tuoi scritti su di lui. Permettimi dunque di rileggere, filtrata dalla tua vita, la solita citazione che di solito si estrae dal Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Di solito la frase è utilizzata come emblema di opportunismo e di cinismo politico, immaginando un mondo ingiusto e cristallizzato in se stesso che si difende attraverso falsi trasformismi. Eppure, io credo che in Tomasi di Lampedusa, e in te, come in tutti i grandi intellettuali, ogni parola, ogni discorso abbia sempre un significato duplice. Nell’orizzonte della bellezza la frase significa esattamente il contrario di quello che sembra. Significa cioè: bisogna preservare il passato, con i suoi straordinari valori, e per ottenere questo risultato bisogna far vivere la memoria e non mummificarla.
Così avevi fatto nelle dimore che abitavi, così qui in Istituto a New York, così nelle istituzioni che dirigevi, in cui le nuove generazioni erano sempre sostenute, promosse, difese con entusiasmo.
E dunque, da Direttore a Direttore, caro Gioacchino, penso anche che la tua eredità sia oggi più importante che mai anche qui, a New York. Te ne vai, ma resti con noi, perché abbiamo bisogno tutti di ricordarci – come te – non quello che siamo stati ma quello che saremo.