Broadway, primo pomeriggio. Teju Cole si inginocchia di colpo, afferra la
macchina fotografica e scatta. È un riflesso fisico, un gesto ripetuto infinite volte fino a diventare veloce e preciso. Ma non basta, bisogna raffinare e interiorizzare la propria sensibilità estetica, modificare le immagini in post-produzione, tagliare, migliorare. Un po’ come per la scrittura, o meglio, come per la scrittura di Teju Cole. La foto dal display appare confusa. New York a quest’ora ha troppi elementi che distraggono. Teju Cole nota però qualcosa di familiare. Mette il copriobiettivo alla camera e si avvicina a un bookstore. Aveva ragione: davanti al negozio, nella bancarella verde dei libri usati c’è in bella vista proprio il suo romanzo Open City (Città Aperta,
traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi). Si avvicina e lo afferra. Osserva la copertina gialla con la scritta rossa, è una prima edizione, proprio quella del 2011. Sfoglia la prima pagina e legge l’incipit: E così quando lo scorso autunno avevo cominciato a fare le mie passeggiate serali, mi ero reso conto che Morningside Heights è un buon punto di partenza per esplorare la città.
E’ la voce del suo alter ego Julius, il protagonista del romanzo, un immigrato
nigeriano che sta completando l’ultimo anno in psichiatria e che vaga per le strade di New York incontrando diverse persone. Open City ha vinto il Premio PEN/Hemingway ed è stato tradotto in dieci lingue. James Wood sul New Yorker lo ha definito “bello, sottile e, finalmente, originale”. Secondo il New York Times “l’importanza del romanzo risiede nella sua onestà” mentre il Time lo definisce “un’opera profondamente originale, intellettualmente stimolante e dotata di uno stile al tempo stesso coinvolgente e seducente”.

Teju Cole spinge gli occhiali in cima al naso. Per lui, nato da madre tedesca e padre nigeriano, formato alla Nigerian Military School e trapiantato adolescente negli Stati Uniti, questa città è qualcosa di ancora sconosciuto e misterioso. È stata questa la chiave del successo del suo libro: in un mondo dove tutti dichiaravano di conoscere New York lui ammetteva di non conoscerla affatto e di riscoprirla nuova ogni giorno, a ogni passeggiata. Gli piace scrivere di metropoli. E ama la definizione di Italo Calvino in Le città invisibili delle “città continue” (l’ha anche citato nel suo sito ufficiale
http://www.tejucole.com/photography/). L’autore italiano immagina che esista solo un’unica grande città continua che non inizia né finisce, “cambia solo il nome dell’aeroporto”. Ciò che per Teju Cole è interessante è trovare, in questa continuità, le differenze meno evidenti della struttura: i segni, le scritte, gli assemblaggi, le cose che si nascondono in bella vista in ogni paesaggio o città. Teju Cole apre il suo romanzo. Nota che sui margini delle pagine ci sono note (alcune a matita, altre con penna blu) scritte con una calligrafia nitida, quasi femminile. Due frasi sono evidenziate: forse è questo che intendiamo per sanità mentale: che, a prescindere dalle nostre eccentricità auto-ammesse, non siamo i cattivi delle nostre stesse storie e mi chiedo perché tante persone considerino la malattia come un test morale. Non ha nulla a che fare con la morale o la grazia. È un test fisico, e di solito perdiamo. Sembrerebbe che il lettore che ha poi abbandonato questo libro sia rimasto molto colpito da V. una paziente di Julius, una nativa americana e un’accademica che studia la storia dei nativi americani a New York. Nel romanzo V. sta attraversando un episodio depressivo ed è profondamente colpita dalla storia di brutalità e genocidio di cui sta
scrivendo. Non ci sono quasi nativi americani a New York e ce ne sono pochissimi in tutto il Nordest. Non è giusto che la gente non sia terrorizzata da questo, perché è una cosa terrificante che è successa a una vasta popolazione. E non è una cosa del passato, è ancora tra noi oggi; almeno, è ancora tra me.
Teju Cole trova altre annotazioni di quando Julius va nel Financial District per visitare il suo commercialista (e dimentica la password del suo bancomat) e di come l’estremità orientale di Wall Street si trovasse l’ex mercato degli schiavi. C’è un’intricata relazione tra queste due entità: Wall Street era un muro letteralmente costruito dal lavoro degli schiavi africani.
Una frase è sottolineata in rosso con un cuore accanto: Mi resi conto di quanto fosse fugace il senso di felicità e di quanto fosse inconsistente la sua base: un ristorante caldo dopo essere arrivati dalla pioggia, l’odore del cibo e del vino, una conversazione interessante, la luce del giorno che cadeva debolmente sul ciliegio lucido dei tavoli. Bastava così poco per spostare l’atmosfera da un livello all’altro, come si fa con i pezzi
di una scacchiera. Anche solo esserne consapevoli, nel bel mezzo di un momento felice, significava spingere uno di quei pezzi e diventare un po’ meno felici.
Tenendo Open City sotto il braccio, Teju Cole cerca anche Every Day Is for the Thief (Ogni giorno è per il ladro, traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi), il suo esordio letterario. Pubblicato nel 2007 questo romanzo racconta la storia di un giovane che parte per visitare il suo paese d’origine, la Nigeria, dopo esserne stato lontano per quindici anni.
Non lo trova e Open City gli sfugge da sotto il braccio. Quando lo raccoglie nota che c’è una sua frase riscritta nell’ultima pagina bianca del libro “Non riuscivo a ricordare com’era la vita prima di iniziare a camminare”
Che strano questo dialogo tra parole stampate, appuntate e lette, tra diversi livelli di passato e presente. Chissà chi era la lettrice o il lettore di questo libro? E perché l’ha abbandonato.
«Buongiorno.»
Teju Cole si gira di colpo e si trova di fronte un uomo alto, dai lunghi capelli bianchi che indossa una vecchia giacca di pelle che si avvicina e continua: «Hai intenzione di comprare proprio quel libro?»
L’uomo non ha tanto l’aria di un libraio, somiglia più a quei vecchi rivoluzionari post-marxisti in moda a New York negli anni Settanta e che oggi votano per Bernie Sanders.
«Ma veramente.»
«Perché vedi, quel libro e lì per sbaglio.»
«Davvero?»
«Stavo sistemando gli scaffali e l’ho appoggiato lì per sbaglio. È di mia moglie e vorrebbe tanto che lo leggessi.»
«Posso chiederle come mai?»
L’uomo si appoggia alla porta della libreria e racconta che sua moglie era convinta che grazie a quel libro avrebbe visto New York, la sua città, in modo nuovo. «Come una metropoli senza confini, ma solo diverse altezze. Sa, per noi, non esiste un “noi” e un “loro”» dice l’uomo gesticolando animatamente «le frontiere mentali e geografiche sono solo una stupida invenzione dell’uomo.»
Teju Cole sorride. «Hai mai sentito parlare dell’italiano Italo Calvino?»