Una ottava edizione di grande successo quella del Donizetti Opera 2022, tenutasi a Bergamo, città natale del compositore cui la rassegna è dedicata. La manifestazione, organizzata dalla Fondazione Teatro Donizetti, già premiata come “Best Festival” agli “Oper! Awards 2019” di Berlino e fresca della conquista della quarta nomination all’International Opera Award, ha registrato un afflusso record di 12mila presenze in sala. Un cartellone ricco, che accosta la riscoperta di opere dimenticate con la riedizione di quelle note in un’ottica di rigore filologico. Oltre a una serie di attività collaterali, campeggiano i tre titoli operistici La Favorite, con la direzione di Riccardo Frizza e la regia di Valentina Carrasco, in co-produzione con l’Opéra di Bordeaux, l’opera buffa l’Aio nell’imbarazzo, diretta da Vincenzo Milletari con la regia di Francesco Micheli e Chiara e Serafina, opera semiseria che ha visto al podio Sesto Quatrini e alla regia Gianluca Falaschi, in collaborazione con l’Accademia Teatro alla Scala.
Tra i capolavori donizettiani, degna di nota la rappresentazione de La Favorite, grand-opéra che trionfò a Parigi nel 1840, spesso sfigurata da tagli, imprecisioni e approssimative traduzioni, proposta al Teatro Donizetti nell’originale francese e in versione integrale con protagonisti Javier Camarena e Annalisa Stroppa. Ne parliamo col direttore d’orchestra nonché direttore musicale del festival Riccardo Frizza.
In cosa consiste la scelta dell’edizione critica e cosa restituisce all’edizione originaria?
Avendo il festival Donizetti un’impostazione scientifica, è d’obbligo privilegiare le edizioni critiche, che vengono compilate dai musicologi dopo aver consultato tutte le partiture disponibili. L’obiettivo è quello di avvicinarsi quanto più possibile al dettato del compositore. Inoltre, questa versione de La Favorite è stata l’occasione per segnare uno spartiacque, e far comprendere che la versione italiana dell’opera non ha nulla a che vedere con quella originale francese. La traduzione che fu fatta nell’Ottocento ebbe lo scopo di assecondare la moda dell’epoca di cantare in italiano, anche per renderla più comprensibile al pubblico, ma ha portato a uno stravolgimento della trama e a tutta una serie di modifiche cui il compositore si è sempre dichiarato contrario.
Quali invece le motivazioni della scelta dell’opera nella sua integralità?
E’ d’obbligo quando si ha la missione di far conoscere ciò che il compositore ha scritto. È evidente che anche solo tagliare alcune parti dell’opera significa snaturare il dettato dell’autore”.
Perché è preferibile ascoltare l’opera in lingua francese piuttosto che in italiano?
Perché il francese è la lingua per la quale l’opera è stata scritta. La Favorite deriva da un’opera precedente mai andata in scena, L’Ange de Nisida, scritta in francese, di cui Donizetti riutilizzò buona parte della partitura per una commissione dell’Académie Royale de Musique, trasformandola in un grand-opéra che fu rappresentato nel 1840. Il compositore dunque la scrive pensando alla musicalità e al fraseggio della lingua francese, che non sono migliori o peggiori, ma diversi da quelli dell’italiano. Le melodie stesse, sulla base di questa diversità, sono costruite su un diverso tono: per questo è importante cantarla in francese.
Dal punto di vista della strumentazione, quali sono le caratteristiche della partitura originale?
Con quest’opera, finalmente Donizetti aveva la possibilità di comporre per l’Opéra di Parigi, che negli anni ’40 dell’Ottocento era il teatro più importante al mondo e disponeva dell’orchestra più prestigiosa dell’epoca. Era molto ampia, così che l’orchestrazione di questa partitura è ricchissima, con quattro trombe, quattro tromboni, quattro corni, corno inglese, arpa: tutto ciò che il musicista potesse desiderare, come un bambino in un negozio di giocattoli.
Come si colloca questa partitura nel dizionario musicale donizettiano?
Con questa scrittura Donizetti si cala completamente nel repertorio francese. In questo periodo il compositore è attivo in tutte le scene parigine, con La Fille du Régiment all’Opéra-Comique, c’è la Lucie de Lammermoore al Théâtre de la Renaissance e La Favorite all’Opéra di Parigi, suscitando persino l’invidia di alcuni compositori francesi. Tant’è che Berlioz, altro grande orchestratore, diceva “C’è Donizetti dappertutto”… Abbiamo dunque quella che è la grande orchestra romantica per eccellenza, la stessa che poi utilizzeranno Brahms o Tchaikowsky, ma anche altri importanti compositori successivi”.
Parliamo delle scelte timbriche che riguardano invece la vocalità…
Una scelta rilevante è stata quella di utilizzare un timbro da mezzo-soprano per la protagonista. Si tratta di un “ruolo falcone”, che non è né mezzosopranile come lo intendiamo oggi, che nasce con Verdi, né sopranile. Si tratta di un tipo di vocalità ibrida, associata al timbro del soprano drammatico Marie-Cornélie Falcon: una variante di soprano drammatico individuata nella produzione francese della seconda metà dell’Ottocento. Per questo tipo di registro abbiamo scelto la voce di Annalisa Stroppa, che secondo noi è quella che si avvicina di più a questo tipo di vocalità, che è la stessa anche di Carmen. Il pubblico, con gli scrosci di applausi tributati alla Stroppa, penso abbia dimostrato che è stata la scelta giusta.
Una vocalità anche piuttosto difficile sul piano tecnico, non le pare?
Certamente, perché richiede un timbro molto carnoso, brunito, ma allo stesso tempo un’agilità e una tensione sul registro acuto. Il personaggio della Favorita tra l’altro è molto complesso e va studiato in profondità, di conseguenza impegna l’artista non solo sul piano vocale, ma anche in uno scavo psicologico di indagine delle varie sfaccettature.
Quali sono gli aspetti che permettono di ascrivere quest’opera al genere grand-opéra e quali invece gli aspetti più italiani?
La consideriamo un grand-opéra innanzitutto perché è scritta in quattro atti e prevede un balletto, inoltre lo stile magniloquente la riconduce allo sfarzo dell’Opéra di Parigi, la sua destinazione originaria. Ciò che ne conferisce invece il carattere di italianità è la melodia. Donizetti, pur immerso nel clima parigino, non si snatura: la sua vena melodica è prettamente italiana. È interessante nell’opera proprio questo mix di lingua francese e melodia italiana. Ma la cifra stilistica più identificativa rimane l’orchestrazione: direi che qui la mano di Donizetti è molto francese, con uno stile di scrittura tutto nuovo per lui.
Riguardo alla struttura?
Si può fare una differenza tra recitativi, che definirei alla francese, e arie all’italiana. Tutte le scene sono molto dilatate e sviluppate strutturalmente, e i recitativi assumono un’ampiezza e uno sviluppo insoliti rispetto a quelli delle opere italiane. Inoltre sono più complessi sul piano strumentale: non sono solo accompagnati da un quartetto d’archi, ma da tutta l’orchestra, e questo aiuta a conferire una cifra espressiva ad ogni situazione drammaturgica nonché a ogni sfumatura psicologica dei personaggi”.
Quali sono i suoi riferimenti sul piano dell’orchestrazione?
Sicuramente a Parigi Donizetti ha modo di scoprire Berlioz, ascolta Mayerbeer e conosce benissimo il Guglielmo Tell di Rossini. Questi antecedenti rappresentano un riferimento per il compositore, cui rimane il merito di una grande flessibilità e una maniera tutta personale nel cogliere uno stile e farlo proprio con risultati grandiosi.
Nell’aprile 2021 ha proposto al Metropolitan Opera House un’originale versione di Lucia di Lammermoor, per la quale ha vinto il prestigioso premio Opéra XXI. Com’è andata l’esperienza americana?
L’allestimento innovativo di Lucia di Lammermoor che ho proposto al Met ha avuto, dopo qualche perplessità iniziale, uno straordinario successo. Nel cast c’era Javier Camarena, che abbiamo visto anche ne La Favorite, e ancora Nadine Sierra nel ruolo della protagonista, e Artur Rucinski, per la regia di Simon Stone. Mi sento di casa al Metropolitan, ho diretto praticamente tutti i compositori italiani, da Rossini a Puccini, sin dal 2009. Tornerò presto, ma non posso ancora rivelare quando.