(Prima puntata di una serie di cinque)
Chi scrive o parla di Napoli tende, da diversi anni ormai, a rappresentarne quello che è più o meno oggi ovvero un’area metropolitana enorme che si distingue poco o punto da molte altre. Passeggiando per strada si notano giovani e meno giovani che sono immersi a consultare spasmodicamente il loro cellulare come a Roma, Londra, New York o Tokio quasi a calarsene dentro dimentichi, forse mai venuti totalmente a conoscenza, della lezione di Herbert Marcuse che in One dimensional man mise a fuoco quello che saremmo diventati: solo dei consumatori alienati. Ma lungi da me dal voler parlare dell’esistenzialismo del XX secolo quest’oggi vorrei iniziare un viaggio con una serie di articoli che riportino a galla la cultura, l’arte e la sociologia napoletana sopravvissuta per secoli e, forse, sconosciuta ai più e che però, ora, sta quasi morendo.
Il Femminiello di Napoli non è da considerarsi un fenomeno di folklore, in quanto con la sua genuina e autentica forma teatrale e umoristica è stato di grandissima importanza culturale, sociologica ed estetica. Per prima cosa chi è il “femminiello“? E’ una figura omosessuale tipica della cultura tradizionale popolare napoletana, di aspetto marcatamente effeminato se non proprio travestito. Incarna un certo tipo di “Culto Ermafrodita” un po’ simili alle Drag- Queens; risulta molto difficile dare una definizione precisa di femminiello, una realtà che incorpora in se tante forme di sessualità: il transgender, il transessuale e l’omosessuale per i napoletani, in breve, sono sempre stati “uomini che si sentono e vivono da donne”, il femminiello a Napoli è stata una figura sempre rispettata e mai ostacolata anzi è stato il soggetto di una società che per molte cose girava intorno a loro.
Ricordo che da bambino negli anni ’50 “ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…”. Così diceva Rutger Hauer in Blade Runner e così affermo io oggi. Un primo caso era rappresentato dal matrimonio che avveniva attraversando le vie del quartiere vestiti di tutto punto e due ali di folla festeggianti che accompagnavano la coppia al matrimonio. Era una festa incredibile! O’ spusalizio era in effetti la festa di tutti gli abitanti del quartiere e nessuno mai osava offenderli o attaccarli, non era nei pensieri di nessuno soprattutto hanno sicuramente contribuito ad allargare la forma mentis dei napoletani nei secoli, rendendola libera da ogni pregiudizio. La cerimonia era totalmente laica e si ispirava al matrimonio della Zeza, la moglie di Pulcinella nella commedia dell’arte napoletana che affonda le sue radici nel duecento, se non oltre. Zeza, che nel dialetto napoletano indica una donna molto vezzosa e frivola non è altro che il diminutivo di Lucrezia, la moglie di Pulcinella.
Il secondo caso, conseguenza del primo, era la “figliata dei femminielli” ovvero il parto della coppia. “Stateve zitti! Silenzio! Questa è ‘na storia antica. Anzi, eterna. Da quann’ è nato il mondo le cose so’ iut semp’ accussì.” Con queste precise parole il grande Peppe Barra aprì il film “Napoli Velata ” di Ferzan Ozpetek mentre alle sue spalle si consumava il rito del parto che avveniva esattamente dopo 9 mesi dalla celebrazione del matrimonio e al tramonto dinanzi ad una chiesa chiusa. Il femminiello che svolgeva il ruolo della consorte era sdraiato sul letto e si contorceva urlando come fanno le donne durante il parto finchè avveniva la nascita con un bambolotto tra le urla felici e festanti degli astanti.
Un terzo caso era rappresentato dal giorno della Candelora, il 2 febbraio, ogni anno si teneva il pellegrinaggio con grandi auto scoperte meglio conosciuto come ” a’ juta de’ femminielli” legato al culto della Madonna di Montevergine chiamata anche “Mamma Schiavona“, sui monti del Partenio in provincia di Avellino, dove sorgeva un luogo di culto dedicato alla Dea Cibele. Il pellegrinaggio si teneva in base a un leggenda del XIII secolo secondo cui la Madonna intervenne per salvare due amanti omosessuali che erano stati legati ad un albero sul monte a morire di freddo e di fame.
Un quarto ed ultimo caso riguardava la gestione economica della tombola da parte loro che, così, gli garantiva un supporto finanziario per poter vivere e che si sviluppava in due belli e divertenti modi: il più divertente era la “tombolata” giornaliera che si svolgeva in un basso e poi c’era la “riffa” settimanale. Alla tombolata, per tradizione consolidata da secoli, potevano partecipare solo ed esclusivamente donne e/o femminielli mentre gli uomini potevano solo assistere senza fiatare sull’uscio. L’estrazione dei numeri era uno spettacolo perché non venivano mai chiamati ma, al loro posto ed in modo molto sboccato, erano soliti tradurli con le parole della smorfia napoletana e per farvi intendere citerò un solo esempio: quando veniva estratto, ad esempio il numero 29, cosa che scatenava le risa e le allusioni veniva detto: “‘o pate de’ ccriature” ovvero il pene maschile. La riffa settimanale, invece, era molto più tranquilla e professionale infatti venivano venduti 90 numeri nel quartiere dal lunedì al venerdì ed il sabato il femminiello arriffatore estraeva, dopo averlo agitato più volte, da un paniere un numero della tombola ed il vincitore incassava la vincita.
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