Come molti sanno, ma non tutti sembrano ricordare, l’Articolo 1 della Costituzione italiana afferma che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Mi ha sempre colpito il legame che questa frase stabilisce tra la forma repubblicana dell’ordinamento statale, la sua natura democratica e la centralità del lavoro per la definizione del rapporto tra i cittadini e lo Stato. La discussione in corso sulla erosione delle istituzioni democratiche nel mondo occidentale si concentra sul crollo della fiducia del “popolo” nelle forme tradizionali di rappresentanza legate ai sistemi politici liberal-democratici. Non si dovrebbe però sottovalutare la portata di questa tendenza di fronte alla crisi delle forme tradizionali di intermediazione degli interessi collettivi che abbiamo conosciuto finora, non solo nel campo politico ma anche in quello delle relazioni industriali.
Questo pensiero mi è risuonato mentre assistevo alla proiezione del documentario “American Factory”, presentato al Museum of Modern Art (MoMA) il 24 novembre nell’ambito della rassegna “The Contenders”, che ogni anno mostra in anteprima le opere in competizione per gli Oscar. Si tratta di un’opera che racconta le difficoltà e le contraddizioni della riconversione da parte della filiale americana di una conpagnia cinese, la Fuyao Glass America, di una ex-fabbrica della General Motors (GM) chiusa nel 2008 a Moraine, periferia di Dayton, Ohio, a seguito delle conseguenze della crisi finanziaria. La Fuyao è uno dei principali produttori mondiali di componenti in vetro per l’industria automobilistica.
Apparentemente il film sembra preoccuparsi delle dinamiche di incontro-scontro tra mondi diversi e assai lontani tra di loro. In effetti, alcune delle scene più coinvolgenti trattano i pregiudizi, le incomprensioni e il senso di spaesamento culturale generati dal tentativo di importare nella cultura industriale del mid-West alcune pratiche alla base del successo della rampante potenza industriale cinese, basate su un esasperato senso della disciplina, dell’efficienza e dell’obbedienza all’etica dell’impresa incarnata nel miliardario Cao Dewang, fondatore dell’impresa, che figura tra i principali protagonisti del documentario. A un livello superficiale, il documentario richiama temi che furono trattati già negli anni ottanta, quando le incertezze e le ansietà che destabilizzavano le relazioni industriali negli USA provenivano da un altro paese orientale, il Giappone della “qualità totale”. Si pensi, ad esempio, al film di Ron Howard “Gung Ho” (1986) con Micheal Keaton, che si concentra sul conflitto culturale tra un team di manager giapponesi e le maestranze locali in una fabbrica di automobili della Pennsylvania rilevata da una compagnia nipponica. Alcuni momenti del documentario sottolineano gli stereotipi proiettati reciprocamente dai lavoratori cinesi e americani, ad esempio quando il management cinese esprime preoccupazione a proposito della lentezza degli operai americani, delle inefficienze provocate dalla loro informalità e addirittura degli effetti negativi sulla produttività determinati dalle dimensioni eccessive delle loro dita.
In realtà, però, il documentario va oltre simili notazioni di costume e svolge una complessa e sofisticata riflessione sul tema della libertà all’epoca della globalizzazione. Non a caso, il cuore della storia raccontata dai co-registi Julia Reichert e Steven Bognar è la mobilitazione, culminata in un fallito referendum tra gli operai perso dalla United Automobile Workers (UAW), che si proponeva di sindacalizzare i lavoratori della “fabbrica americana” a dispetto della decisa politica anti-sindacale imposta dalla proprietà cinese.
Reichert e Bognar, già co-autori di un precedente documentario sulla chiusura della fabbrica della General Motors (“The Last Truck: Closing of a GM Plant”, 2009), registrano le interazioni e le impressioni dei vari attori sociali con profonda empatia nei confronti dei soggetti più deboli, come i lavoratori che perdono il lavoro a causa del loro impegno a favore del sindacato, mantenendo nello stesso tempo un grande equilibrio nell’illustrare le posizioni della compagnia cinese rivolte a rendere efficiente e redditivo il notevole investimento operato nella fabbrica. Ciò che viene descritta non è una tesi ideologica nella quale un “capitalista autoritario” si contrappone agli operai vittime della globalizzazione. Gli autori in fondo osservano gli effetti, nel microcosmo di una fabbrica dismessa e ristrutturata in Ohio, dell’onda lunga di uno tsunami economico e sociale provocato da una vera e propria rivoluzione industriale, quella che ha provocato la transizione – nelle società industriali avanzate – da modelli tecnico-organizzativi fondati sulla produzione di massa e sulle catene di montaggio a sistemi computerizzati e automatizzati che hanno cambiato la natura, il costo e le competenze del lavoro nel mondo globalizzato.
La decisione di Cao Dewang di impiantare una fabbrica in Ohio è la conseguenza di due processi convergenti di trasformazione nei sistemi industriali degli Stati Uniti e della Cina. Il primo riguarda il graduale contenimento del costo del lavoro nei paesi occidentali che ha visto nel corso degli ultimi quarant’anni un sostanziale peggioramento in termini reali delle condizioni di occupazione degli operai statunitensi, ad esempio in termini di riduzione del salario reale, precarizzazione dell’impiego, flessibilità dei contratti, rinegoziazione dei benefici pensionistici e previdenziali. Il secondo processo consiste nel contestuale incremento del costo del lavoro nelle economie emergenti, soprattutto in Cina, a seguito dello stimolo della domanda interna, dell’incremento della produttività e dell’innalzamento dei medesimi standard lavorativi, nonché delle politiche statali di investimento in infrastrutture e servizi. Il centro studi Euromonitor International ha stimato che tra il 2005 e il 2016 il salario medio degli operai cinesi è aumentato in media del triplo, arrivando a 3,60 dollari l’ora, superando quello delle tute blu in Brasile e in Messico e avvicinandosi ai livelli di Grecia e Portogallo. Se a questi fattori si aggiunge il vantaggio di ridurre notevolmente i costi di trasporto dei prodotti finiti, grazie alla prossimità della “American Factory” rispetto ai grandi distretti industriali del mid-West, si comprendono le ragioni della scelta della Fuyao di operare un simile investimento. Va sottolineata inoltre la lungimiranza della proprietà cinese che, investendo in una fabbrica americana ai tempi dell’amministrazione Obama, si trova ora in una posizione di vantaggio per via dei dazi doganali sulle importazioni dalla Cina recentemente introdotti dal presidente Trump nell’ambito delle cosiddette guerre commerciali in corso tra le due superpotenze. A questo proposito, va ricordato che “American Factory” è la prima opera lanciata dalla nuova compagnia di produzione Higher Ground, fondata dall’ex-presidente Barack Obama e da sua moglie Michelle.
Nel dibattito che ha fatto seguito alla proiezione al MoMA, Bognar ha affermato che lui e Reichert hanno avuto diverse fonti di ispirazione. Ne ha citate due molto significative. La prima è “American Dream” di Barbara Kopple che vinse l’Oscar nel 1990 e che documentò uno sciopero fallito sostenuto dai lavoratori sindacalizzati alla Hormel Foods in Austin, Minnesota, tra il 1985 e il 1986. La seconda opera citata è “La battaglia di Algeri” (1966), il film drammatico di Gillo Pontecorvo sulla lotta di liberazione algerina, con il caveat che i co-registi di “American Factory” hanno cercato di cogliere il punto di vista di tutte le parti in conflitto. Questo documentario ha il pregio di spiegare con molta eloquenza e partecipazione fenomeni trattati in ambiti specialistici, come il World Development Report 2019 della Banca Mondiale dedicato al futuro del lavoro, l’agenda dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sul cosiddetto “decent work” e l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goal) SDG 8 che tratta di buona occupazione e crescita economica nel quadro dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.
Negli anni documentati da Reichert e Bognar, dal 2014 al 2018, la fabbrica ha mantenuto una forza lavoro costante di circa 2200 posti di lavoro americani e 200 cinesi. In realtà il turnover della manodopera statunitense è stato elevatissimo, con oltre 5000 operai impiegati nello stesso arco di tempo, molti dei quali licenziati durante la mobilitazione fallita per l’introduzione di una rappresentanza sindacale nell’azienda. Il futuro della fabbrica, come si nota alla fine del documentario, si fonda su una sua progressiva automazione, testimoniata da un incremento di linee di produzione a fronte di una sostanziale stabilità del numero degli occupati. L’emergere inesorabile della produzione robotizzata, in fondo, pone in una luce diversa l’intera questione, perché svela che al di sotto e al di là delle dinamiche conflittuali tra operai di diverse culture, la storia raccontata dal film è forse solo il prologo di una nuova era nella quale il lavoro vedrà al centro della propria organizzazione sempre di più le macchine rispetto alle persone, a prescindere dalle politiche protezionistiche sostenute per difendere interessi nazionali di corto respiro.