Amo camminare per le strade italiane: le vie, i viali, i vicoli e le piazzette riorientano interiormente il mio senso dello spazio urbano facendomi attingere all’energia che le strade e le vetrine, le fontane e la gente irradiano con la loro vicinanza. Né io né Jennifer dormiamo da ventotto ore, un espresso ci starebbe bene.
In nessun’altra parte del mondo il caffè è paragonabile a quello che si trova in un bar italiano. La misura, la consistenza e l’aroma di quella tazzina sono imitati in tutto il globo con più o meno competenza, ma nessun altro ha mai prodotto nulla che possa competere con l’espresso del più minuscolo baretto italiano, magari incastrato dentro un muro, dove te lo fanno pagare solo pochi spiccioli. Giriamo in via Garibaldi convinti che il caffè esiga la compagnia di un gelato. Ci fermiamo al primo posto che capita. La padrona ci offre allegramente un assaggio gratuito dei vari gusti, produzione propria. L’acqua di rose è deliziosa e sottile. La scegliamo entrambi, abbinandola ad altri gusti.

Lo scorso inverno Genova non era nemmeno una tappa prevista. Io e mia moglie stavamo pianificando una visita oramai quasi improcrastinabile a dei cari amici in Toscana, a cui sarebbe seguito un viaggio a Napoli e in Costiera Amalfitana. All’inizio volevamo volare in un posto a caso per poi dirigerci immediatamente a sud in treno. Prima la Toscana e, dopo una settimana di gitarelle in quella regione, saremmo scesi in Costiera Amalfitana per poi arrivare a Napoli. Il destino aveva voluto che il miglior biglietto aereo fosse un volo da Chicago ad Amsterdam; e poi da Amsterdam a Genova, non Milano. Per me in passato Genova era stata solo la stazione in cui cambiare treno sulla tratta da Milano alla Toscana.

Volevamo abituarci al nuovo fuso orario prima di incontrare i nostri amici a Forte dei Marmi, e così Jennifer aveva suggerito di passare la notte a Genova. Un po’ di riposo prima di salire a bordo di un treno affollato per dirigersi a sud la mattina dopo ci sembrava una buona idea.
Sul volo che ci stava portando a Genova, affondavamo e riemergevamo dal semi-sonno fino a quando una leggera turbolenza non ci ha avvisato che stavamo sorvolando le Alpi, le quali si stagliavano sotto di noi con profili purpurei e argentei. Per me, quei cinque o dieci minuti sopra i massicci alpini sono sempre stati una bella ricompensa per la scelta di volare dal nord al sud Europa. Poco dopo, mentre atterravamo a Genova, il riflesso del sole sulla città si rifletteva a sua volta sui nostri volti.
Il tassista, un signore del luogo molto affabile, era tutto contento quando si è accorto che parlavo abbastanza italiano da permettergli di darci consigli sulla nostra breve visita (“State lontano dal porto”, “Passate assolutamente da via Garibaldi”). Ci ha fatto passare in macchina davanti al porto malfamato, ed anch’io ero preda di una certa eccitazione, non solo perché riuscivo a capirlo, ma anche per l’italiano che si rifaceva vivo nella mia mente e nelle mie parole. Avevo imparato a parlarlo quasi tre decenni prima, quando vivevo in Toscana e mi mantenevo insegnando inglese. Erano passati quasi quindici anni dalla mia ultima visita. Quante cose erano cambiate in tutto quel tempo.
All’hotel, mentre ci registravamo, abbiamo notato sopra al bancone un volantino sulla mostra di Giorgio de Chirico al Palazzo Ducale. La decisione è stata immediata. Ci saremmo sciacquati la faccia e avremmo mollato i bagagli in stanza, senza nemmeno guardare il letto per non farci prendere dalla voglia di dormire. Ci siamo diretti in strada verso il Palazzo Ducale e la mostra Giorgio de Chirico, Il volto della metafisica.
de Chirico a Genova
Lungo la strada per la mostra, l’architettura di Genova ci costringe a fermarci in continuazione. Ci troviamo in una delle antiche Repubbliche Marinare, le bisnonne del capitalismo. Dei sirenetti colossali sostengono il portico di un cortile ombreggiato da fronde di palma. Tritoni e Nettuni ci guardano dalle fontane e dalle facciate. Siamo vicini al mare e ai suoi mercati antichi, senza dubbio. Dopo alcuni minuti di piacevole sperdutezza, ci rendiamo conto di essere davanti al Palazzo Ducale.
Per sua scelta, de Chirico fu uno dei modernisti più enigmatici. Uno dei suoi autoritratti reca la domanda: “Cosa amerò se non l’enigma?”
Come membro essenzialmente unico della cosiddetta scuola di pittura “metafisica”, de Chirico trascorse la sua infanzia in Grecia, dove il padre italiano progettava ferrovie. Quel termine “metafisica” era il nomignolo scelto da un critico d’arte per gli inquietanti paesaggi urbani di de Chirico animati da piazze deserte e portici rinascimentali, dietro i quali la sagoma sottile di un treno scivola spesso lungo l’orizzonte. Le sue opere più grandi, prodotte fino al 1919, implementano prospettive esasperate. Il sole del Mediterraneo proietta ombre lunghe oltre il limite del possibile che sembrano respingere l’orizzonte. Aveva un talento naturale nell’infondere un’intensità animistica sconcertante e quasi minacciosa negli oggetti ordinari. Un frutto, un guanto, una forma d’abito o una statua in un luogo pubblico incombono davanti a chi osserva l’opera con il senso di una forza misteriosa a malapena tenuta a freno.

I surrealisti lo adoravano e talvolta suggerivano nomi per le prime tele di de Chirico, i quali di solito portavano titoli densi di significato poetico tipo “Mistero e malinconia di una strada”, “Il doppio sogno di primavera” o “L’angoscia della partenza”. Uno dei ritratti “letterari” di de Chirico che preferisco è quello del poeta Guillaume Apollinaire. Il primo piano è dominato dall’immagine di un busto classico in gesso che indossa occhiali da sole. Apollinaire è reso con un profilo di tre quarti mentre la sua ombra lo sovrasta sullo sfondo, come un fantasma che incombe nel suo stesso ritratto. Per qualche motivo, De Chirico dipinse anche un cerchietto opaco attorno alla tempia di Apollinaire. Dopo che Apollinaire fu tornato a casa dalla prima guerra mondiale con una ferita alla testa proprio in quella zona che, alla fine, si rivelò fatale, de Chirico dichiarò di averlo previsto.
Sappiamo dai suoi scritti che, negli anni tra il 1900 e il 1919, de Chirico era soggetto ad allucinazioni e premonizioni visive e uditive. Si lamentava anche di mal di testa, dolori gastrointestinali e svenimenti. Recentemente, Theodor Landis e Olaf Blanke, neurologi europei, hanno ipotizzato che il pittore soffrisse di una forma di epilessia. Qualunque sia stata la causa, si ritiene che proprio quei malesseri ispirarono il suo stile metafisico ancora in via di sviluppo, ispirazione che molti storici dell’arte ritengono esaurita già nel 1918, anno in cui l’artista compì trent’anni, a dispetto del fatto che de Chirico avrebbe continuato a dipingere per altri sessanta anni quasi.
Se si è mai osservato anche un solo quadro di de Chirico in un museo, con tutta probabilità quella tela è stata dipinta al di fuori dell’arco di tempo del cosiddetto grande periodo metafisico, durato dieci anni. Gli incontri con i grandi dipinti metafisici non avvengono tutti i giorni, e, quando avvengono, è solo presso le principali collezioni mondiali. I grandi dipinti metafisici sono relativamente pochi, nonostante i tentativi dell’artista stesso di confondere la situazione con nuove opere più avanti nella sua carriera.
Nel 1919, de Chirico pubblicò un articolo intitolato “Il ritorno dell’artigianato” in una rivista d’arte orientata politicamente verso un ritorno ai valori “classici” dei maestri del Rinascimento italiano. Il periodo metafisico era finito; de Chirico a quel punto prendeva spunto da Botticelli e Raffaello. I critici d’arte concordano che la sua svolta verso il classicismo abbia prodotto opere di scarso valore artistico, se la pietra di paragone sono i dipinti degli anni tra il 1910 e il 1920.

Il volto alla metafisica copre bene il de Chirico “classicista”, ma non rappresenta che la metà della mostra. Il che mi va anche bene. I dipinti di de Chirico di quel periodo artistico non mi hanno mai convinto, e, complici forse le ventotto ore di veglia, qui al Palazzo Ducale appaiono eccentrici e inefficaci come sono sempre stati. La trattazione successiva di soggetti mitologici mi sembra quasi sempre pesante e ridondante rispetto ai temi del suo periodo metafisico come quelli, ad esempio, della principessa Ariadne. I dipinti metafisici di de Chirico incorporano spesso una scultura di epoca romana della principessa cretese, con o senza le ombre di una piazza, in modo da irradiare una presenza malinconica, quasi inevitabile, ovunque quelle ombre entrino nel piano pittorico. La sua figura languida riesce in qualche modo a manifestare sia un’evidente emotività che una dimensione profondamente filosofica. Per contro, c’è qualcosa di apertamente didascalico, se non quasi predicatorio, nei soggetti mitologici e storici dipinti dopo il 1920.
Mia moglie si chiede ad alta voce perché nessuno dei primi dipinti di De Chirico sia in mostra. Conoscendo il mio rapporto armonioso con le sue prime opere, spera che la traversata della città alla ricerca della mostra sia valsa lo sforzo e che io non sia deluso.
“Pensi che il titolo dello spettacolo sia fuorviante?” chiede.
“Buona valida. Penso di no. In fondo, più della metà dello spettacolo è dedicata allo stile metafisico di De Chirico. ”
“Ma le tele metafisiche appese al Palazzo Ducale sono state tutte dipinte a metà del XX secolo, decenni dopo la grande fioritura metafisica dell’artista.”
“Lo so. È difficile capire perché de Chirico, il classicista, abbia iniziato a metà del secolo a guardare indietro, sfornando a metà del secolo copie delle sue grandi opere metafisiche. ”
“Magari erano più facili da piazzare dei dipinti originali realizzati nel suo nuovo stile. Forse De Chirico stava cercando di dimostrare qualcosa agli ex-ammiratori, ora trasformatisi in detrattori, come ad esempio i surrealisti, che vedevano nelle sue aspirazioni “classiche” un tradimento della loro causa”
“Forse i problemi di salute di De Chirico sono regrediti al punto che gli riusciva solo di copiare, ma non più di “ri-abitare” quel precedente stato metafisico.”

Il volto della metafisica fornisce poche risposte a questi dubbi. Ciò non significa che lo spettacolo non abbia sorprese. Tra le altre opere del suo secondo periodo, la mia attenzione si dirige su alcuni dei ritratti che gli furono commissionati, se non altro perché sono nuovi per me. Catturare la somiglianza dei soggetti non era il suo forte. Tuttavia a volte c’è una tensione interessante nei ritratti tra il de Chirico proto-surrealista e quello classicista; nei migliori, le pulsazioni interiori del periodo surreale rianimano le rigide architetture del periodo classico. Comprendiamo che anche il de Chirico classicista si rese conto che un senso di interiorità è essenziale per esprimere manifestazione realistica di soggetti in carne ed ossa.
Forse la domanda più pressante sollevata da Il volto della metafisica è “Cosa ci dice questa mostra, che dura ormai da due mesi, sulla direzione dell’Italia nel mondo di oggi?” La svolta di De Chirico verso il classicismo era un rifiuto della politica socialista dei surrealisti? In tal caso, qual’è il significato dei suoi successivi ritorni allo stile metafisico? Nelle oscillazioni del suo stile, siamo tentati di rintracciare una prefigurazione delle spinte e delle trazioni della destra e della sinistra nelle democrazie capitaliste occidentali.

Come l’attuale regime americano, anche l’Italia vuole la chiusura dei porti. Il problema è fuori, ma incombe verso di noi. Assistiamo ad un richiamo pressante al ritorno dei vecchi valori. E questa mostra porta a chiederci: “Quali sono i vecchi valori?”
Mentre usciamo accolti dalla luce di Piazza de Ferrari nel tardo pomeriggio, mi sembra che l’enigma di de Chirico sia un portale perfetto attraverso cui tornare in Italia. Vecchi amici e nuove mete ci aspettano. Con nostro piacere, troviamo questo portale questa estate nell’antica città portuale di Genova, i cui palazzi sono adornati con gli dei del mare e le cui strade odorano oggi di gelsomino e caffè.
(Traduzione di Luca Passani)