20 Luglio 1969: l’Apollo 11 mette per la prima volta piede sulla Luna e si avvera così un sogno durato secoli e secoli. Da sempre, infatti, la mente e il cuore dell’Uomo sono profondamente affascinati da questo straordinario satellite, ma chi più di altri è riuscito a descrivere la sublimità dell’astro è stato il nostro Giacomo Leopardi, nella lirica intitolata appunto “Alla luna”, composta a Recanati intorno al 1819/20.
O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’ angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!
I versi presentano una visione inedita dell’astro che considerato da sempre, per la luce che emana e che avvolge tutte le cose, algido e distante, in realtà permette all’Uomo di esprimere la parte più intima di sé. Un’ entità misteriosa e per questo terribilmente affascinante. La Luna sorge ogni notte e tramonta ad ogni alba dall’eternità e per l’eternità, attenta ascoltatrice dei lamenti umani, non interviene per lenire le sofferenze dei mortali, probabilmente non le è possibile, ma è sempre disponibile “graziosa…diletta”(la definisce il Leopardi) con la sua presenza ad ascoltarci come se ci comunicasse con il suo volto sereno ed etereo che non siamo soli, che esiste una dimensione metafisica, ab aeterno, nella quale siamo immersi, ben superiore ai nostri patimenti che comunque ci accompagneranno per l’intera esistenza. Il suo carattere fondamentale è, quindi, quello dell’eternità, perché riappare sempre, dopo essere momentaneamente e apparentemente scomparsa, e simboleggia perciò la vittoria sulla morte e sulle tenebre.
Il dolore è parte della vita dell’uomo, non dobbiamo illuderci, e quando siamo sereni, non felici, questa è solo una breve parentesi, perché inevitabilmente, prima o poi, il nostro travagliato percorso riprenderà. Così recitano alcuni splendidi versi del poeta greco Archiloco (680 a.C./645 a.C.), dedicati al suo stesso cuore:
Cuore, mio cuore, turbato da affanni senza rimedio,
sorgi, difenditi, opponendo agli avversari
il petto; e negli scontri coi nemici poniti, saldo,
di fronte a loro; e non ti vantare davanti a tutti, se vinci;
vinto, non gemere, prostrato nella tua casa.
Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori
non troppo: apprendi la regola che gli uomini governa.
Tuttavia il ricordo delle “passate cose” permette di farle rivivere, come dice il Leopardi, e l’esperienza precedente, per brutta che sia stata, deve esserci utile per non commettere più i medesimi errori.
Il tragediografo greco Eschilo (525 a.C./456 a.C.) parlava, infatti, di “páthei m thos”, cioè di “conoscenza attraverso la sofferenza”: la felicità non ci insegna nulla, è il dolore che ci istruisce, anche se a noi non fa piacere provarlo. Per questo dobbiamo ringraziare tutto e tutti perché il positivo ci regala solo attimi di serenità e raramente di gioia, il negativo invece ci rafforza, ci rende migliori, più saggi. . .’Questo’ del II verso e ‘quella’ del IV verso della lirica leopardiana, indicano l’abisso che separa l’Uomo dalla Luna: dovrebbe esserci incomunicabilità, invece, paradossalmente, è proprio l’essere più lontano quello in grado di capirci maggiormente.
Talvolta nella vita quotidiana troviamo conforto e condivisione magari più in chi non aveva meritato, fino a quel momento, la nostra considerazione, in chi era stato ingiustamente sottovalutato, piuttosto che in coloro che avevamo idealizzato. L’apparenza, la forma, più che la sostanza, ecco cosa acceca: basta poco per illudere, per ingannare. “Nel tempo giovanil…quando ancor lungo la speme”: con queste parole il Leopardi si volge all’età giovanile con occhio disincantato. E’, questa, una bellissima fase dell’esistenza umana, dal momento che in essa si coltivano sogni, desideri, prospettive per il futuro, ma è anche l’età in cui veniamo facilmente ingannati, perché tutto avviene come se un velo ci coprisse gli occhi e non vedessimo nulla.
“Infinito” ed ”Eterno”: questi due aggettivi che possiamo attribuire alla Luna richiamano rispettivamente la dimensione dello spazio e del tempo, della perpetuità sia in riferimento al passato sia in riferimento al futuro; essi, uniti, creano quell’immensità che il pensiero umano non riesce e che non riuscirà a sostenere, nonostante i progressi indescrivibili della scienza la quale non sarà mai in grado di racchiudere in sé siffatta grandezza incommensurabile, quella vertiginosa sublime vastità che scavalca i limiti dell’individualità e cancella ogni traccia della propria miseria umana. Gli dei della mitologia greca non permettevano assolutamente che un mortale oltrepassasse quella linea invisibile che teneva separati e distanti il mondo metafisico da quello reale e, qualora questo incauto passaggio fosse avvenuto, in loro sarebbe scaturita la “fthόnos theόn”, “la malevolenza degli dei”: probabilmente gli antichi avevano visto bene perché è innegabile che, nonostante l’Uomo, per sua natura finito, tenda da sempre all’infinito e desideri ribellarsi a regole che gli impongono di rimanere nella sua condizione, perdersi in questa dimensione di immensità è bellissimo…
Best wishes, Luna!