Quando si ha il privilegio di intervistare qualcuno nel suo ambiente casalingo, l’intervista inizia prima dell’intervista. La calorosa atmosfera di benvenuto con la quale Michael F. Moore mi ha accolto nella sua deliziosa casa di Long Island City a New York, mi ha subito raccontato tanto della sua personalità. Così come la sua casa, che è come un libro aperto sulla pagina dei suoi ricordi; una casa piena di libri, di arte, di viaggi, di curiosità, di ricerche e di scoperte. Affabile, sorridente, il padrone di casa mi ha comunicato una precisa sensazione di generosità umana ed intellettuale, come quella che sanno trasmettere quei maestri che ti rimangono impressi nella memoria, quelli che ti hanno ispirato a leggere, a scrivere, a informarti. Mi chiede se gradisco un caffè Michael, “io lo preparo come fate voi al Sud”, mi dice, e da lì inizia la nostra chiacchierata che avrà poi proprio il sapore ed i colori del nostro Sud Italia con tutte le sue contraddizioni ed i suoi chiaroscuri.
L’occasione del nostro incontro è infatti la presentazione della versione integrale, inedita per il pubblico americano, del film di Francesco Rosi Cristo si è fermato ad Eboli, tratto dal celeberrimo libro di Carlo Levi, per il quale Moore ha scritto i sottotitoli. Una storia ed una testimonianza importante quella di Levi, scrittore e pittore di origini piemontesi che tra il 1935 ed il 1936 fu condannato al confino, in Basilicata, dal regime fascista per la sua attività antifascista. È proprio questo forzato confino l’occasione per lo scrittore di farsi testimone, cronicista e narratore della questione meridionale, dipingendo a tinte forti da una parte il lirismo rurale, il realismo magico del paesaggio, dall’altra la profonda arretratezza socioculturale dei contadini schiacciati dall’egemonia della piccola borghesia di paese e dall’autarchica del regime fascista imperante.
Il film distribuito da Rialto Pictures, sarà presentato presso il Film Forum di New York, in cartellone dal 3 al 18 di Aprile, e la prima proiezione sarà introdotta proprio dal traduttore americano. Non è la prima volta che Michael Moore si cimenta con i sottotitoli, sempre per Rialto Pictures ha scritto quelli per Il Boom di Vittorio De Sica e Senso di Luchino Visconti, ma questa è solo la punta dell’iceberg di una carriera lunga ed articolata di traduttore, interprete, scrittore ed italofilo che ha portato l’intellettuale americano a confrontarsi con i più grandi nomi della letteratura italiana, dai classici come Manzoni, Moravia, Primo Levi, ai più contemporanei come Edgardo Franzosini, fino a Fabio Genovesi, Erri De Luca, Nicola Gardini, per citarne alcuni. Moore riveste anche l’importante carica di interprete e traduttore per l’ONU ed è stato il presidente del PEN/HEIM Translation Fund, un’organizzazione che supporta l’arte della traduzione in America elargendo dei fondi per giovani traduttori.
Per tornare a Carlo Levi, che prima di affermarsi come scrittore era già un apprezzato pittore, anche per Michael Moore il primo amore è stata l’arte, ed in particolare la scultura. Fu proprio il desiderio di imparare l’arte dei grandi maestri italiani che spinse Moore a trasferirsi per la prima volta in Italia dove studierà all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. E così come Levi che era riuscito a trasferire il suo occhio grafico ed il suo senso del colore nella sua scrittura, regalandoci nelle pagine dei suoi libri degli splendidi quadri della nostra Italia, anche Moore è riuscito a traslare la scultorea arte del modellare e del rimodellare nella sua missione di vita come scrittore e traduttore, adattando le sinuose architetture del periodare italiano a quello americano con maestria quasi artigianale.
Addentrandosi nell’arte del traduttore insieme a Moore si ha l’occasione di riscoprire la bellezza della nostra letteratura, del nostro paese e del nostro rapporto con gli Stati Uniti. Si ha anche l’occasione di parlare liberamente di temi importanti, di socialismo, di fascismo, di politiche, di immigrazione, di osmosi e contaminazioni intellettuali, in uno scambio, vero, semplice, spontaneo tra culture e generazioni diverse che sembra tanto mancare ai tempi correnti che stiamo vivendo, troppo spesso abitati dalla paura del diverso, dalla chiusura di porti fisici e mentali, da violente prevaricazioni della libertà di pensiero, di stampa e di parola. E così mentre parlo con Moore de il Cristo che si è fermato ad Eboli, quella storia riecheggia più contemporanea che mai, più realista del neorealismo che evoca. Un viaggio piacevole, anche romantico, quello che si fa al fianco del traduttore americano mentre racconta del suo amore per le lingue, il cinema e la letteratura. Ma Moore non traduce solo parole, traduce anche le sue emozioni, i suoi ricordi vissuti nel nostro Bel Paese, in racconti che saranno sigillati nel libro autoriale che si sta apprestando a scrivere.
Raccontaci dei tuoi inizi. Come ti sei avvicinato al mondo della traduzione e alla lingua italiana?
“Sono andato in Italia per la prima volta nel 1975 per studiare all’Accademia di Belle Arti di Milano, ho studiato scultura. Appena finito il liceo era mio desiderio viaggiare, il più lontano possibile. Volevo innanzitutto imparare una lingua. Strano a pensarsi ma io a scuola andavo malissimo in lingue! L’italiano l’ho imparato davvero solo quando mi sono trasferito in Italia. Ho studiato quindi arte contemporanea ed ho poi iniziato ad insegnare in un liceo linguistico a Como. Insegnavo letteratura inglese. È stato uno dei più belli lavori che io abbia mai avuto. Successivamente sono tornato in America per un master di letteratura comparata: italiano, tedesco ed inglese. Finito il master ho deciso poi di concentrarmi sull’italiano e mi sono iscritto alla NYU vincendo una borsa di studio e mi sono dedicato principalmente allo studio del Rinascimento e alla figura di Petrarca. Insieme a questa attività iniziavano ad arrivare le prime offerte di lavoro come interprete ed hanno iniziato a contattarmi le case editrici. L’eco del mio lavoro è poi arrivato all’ONU che mi ha proposto una collaborazione”.
Come è stato l’incontro con gli autori italiani? Traducendo, cosa hai scoperto in più della letteratura italiana ma anche della tua lingua madre?
“Quando traduci innanzitutto ti trovi ad essere responsabile di ogni parola. Cominci quindi a conoscere meglio l’italiano ma anche l’inglese, perché cercando gli equivalenti inglesi delle parole italiane riscopri o scopri anche di più del lessico della tua lingua. Trovo negli autori italiani, sia contemporanei che classici, questo grande amore ed interesse per il paesaggio. Spesso la narrativa a livello di trama può anche essere debole, non è molto utilizzata la tecnica della suspense tipica della letteratura americana. C’è un ritmo più lento, frasi più lunghe e questa attenzione a ricreare l’ambientazione della storia tramite la scrittura. Inoltre, la letteratura italiana è influenzata tantissimo dalla lirica, dalla poesia. In Manzoni per esempio, che sto traducendo adesso, c’è anche un grande plot narrativo spezzato da dei momenti più leggeri e comici, e c’è anche un grande studio del personaggio, insomma c’è tutto, I promessi sposi è come una grande enciclopedia. Per questa traduzione infatti ho bisogno di consultarmi con diverse figure e professionalità: preti, esperti legali, italianisti. Anche in Manzoni però si sente l’eco della tradizione lirica di Dante e di Petrarca, stessa cosa si può dire di Moravia. Oggi è un po’ diverso. Tanti scrittori contemporanei italiani vogliono rifarsi a certi stili americani, mentre un tempo era la letteratura francese il modello di riferimento”.
Nell’arte della traduzione, come si bilanciano la necessità di rimanere fedeli alla lingua italiana ma anche di essere fedeli alla propria lingua ed al lettore americano?
“Dipende dallo scrittore. Ho tradotto per esempio un bellissimo libro di Fabio Genovesi, Esche vive, che è un libro molto spiritoso e comico e doveva essere comico anche in inglese, quindi doveva rimanere fedele a quello spirito. Per esempio, una semplice parola come gelato, la avevo tradotta con ice-cream, pur sapendo benissimo che l’ice-cream e il gelato non sono la stessa cosa, però se tu scrivi gelato in inglese conferisci un’idea di un prodotto artigianale elevato, e non era quello il caso visto che la storia era ambientata in un piccolo paese povero. Ice-cream è più comune, e gelato in Italia è un termine comune, popolare, da noi gelato lo è di meno. È più difficile il caso di Manzoni a causa del suo periodare lungo e complesso. Bisogna però anche capire nello specifico come funziona la grammatica italiana. Mettiamo ad esempio il punto e virgola. In italiano il punto è un accento molto conclusivo, molto forte, in inglese invece no. Quindi a volte traduco il punto e virgola con il solo punto, perché in inglese il punto è una preposizione meno definitiva. In italiano c’è un qualcosa quasi di volgare nell’utilizzare il pronome nominativo come soggetto, Io, tu… anche perché è implicito nel verbo, in inglese invece sono necessari per la comprensione della frase. Se un traduttore è troppo letterale, ne esce fuori un prodotto brutto, difficile da leggere”.
Quanto è diverso invece lavorare ai sottotitoli di un film?
“Nel libro c’è la parola e basta. Nel film ci sono tanti linguaggi, c’è la fotografia, gli attori, la musica… Il sottotitolo non deve oscurare queste altre lingue e quindi si deve cercare di essere il più sintetici possibile. Non vuoi che lo spettatore passi troppo tempo a leggere il sottotitolo”.
Parlaci nello specifico del tuo lavoro per Cristo si è fermato a Eboli.
“Sia in questo film che per un altro che ho sottotitolato, Senso di Visconti, lo sfondo storico della vicenda è molto importante. In questi film si parla dell’epoca del risorgimento e dell’unificazione. In Senso ho incontrato la difficoltà di spiegare al pubblico americano chi erano i bersaglieri, i garibaldini, ed in Cristo si è fermato ad Eboli, che cosa era il fenomeno del brigantaggio. In teoria hai a disposizione una sola parola. Nei libri spesso faccio delle chiose nascoste, aggiungendo un aggettivo in più o una spiegazione parentetica. Nei sottotitoli non hai questa opportunità quindi quando serve si utilizza una didascalia ad inizio film che contestualizza la storia”.
Quanto è significativa questa nuova edizione del film di Francesco Rosi e quanto attuali pensi che siano le tematiche sociali e politiche che Levi ha affrontato nel suo libro?
“Con Cristo si è fermato ad Eboli ho avuto l’occasione di rivisitare un libro della mia gioventù e ricordare che cosa sia stato il fascismo. Forse più nel film che nel libro, sorprende il rapporto anche molto amichevole che si instaura tra Levi ed il podestà nonostante la sua caratterizzazione molto sinistra. Lo scrittore ci mostra anche la faccia sorridente del fascismo senza ovviamente nascondere quanto fosse pericoloso, soprattutto l’oppressione ed il razzismo intrinseche all’invasione dell’Abissinia. Questa è la prima volta che esce in America la versione inedita e completa del film. È importante mostrarlo oggi, in un momento storico in cui si parla tanto di fascismo, delle problematiche dei paesi del Sud e della crisi dell’immigrazione nel Mediterraneo. Secondo me questo libro di Levi è il libro più importante mai scritto sulla questione meridionale. Nel piccolo paese della Basilicata in cui è ambientata la storia, gran parte dei cittadini sono immigrati in America ad un certo punto della loro vita prima di far ritorno. Nel libro i contadini affermano: “la nostra capitale è New York non Roma”. È importante conoscere bene la storia dalla quale veniamo. Oggi c’è quasi una idealizzazione del fascismo. Spesso si usa una versione idealizzata della storia per giustificare le azioni contemporanee. Nel finale del film, si parla di una possibile soluzione alla questione meridionale affermando che qualsiasi forma di governo al potere incontrerebbe lo stesso problema. Levi nel libro come Rosi nel film, cercano di ristabilire una nuova etica del contadino, in termini molto marxisti. In questo mondo quasi precristiano che descrivono, le istituzioni si sfidano tra di loro e non accettano alcuna ingerenza esterna, e con questa lettura si tratteggia quello che è un carattere tipico dell’essere italiano. “Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini è la piccola borghesia dei paesi”, scrive Levi.
Da scrittore invece, quali sono le storie che racconti?
“Le mie storie sono proprio le mie storie. Raccontano delle mie esperienze. A breve andrò in Italia per tre mesi, amo tornare nei luoghi dove sono successi eventi importanti della mia vita. Mi stacco per un po’ dalla mia quotidianità per vivere nei miei ricordi e scriverne. Scrivo in forma di racconti e mi piace anche la saggistica, mi piace raccontare dell’arte della traduzione”.
Stai concludendo la monumentale opera di traduzione de I promessi sposi di Manzoni. Dopo in quali progetti sarai impegnato?
“Sì, I promessi sposi uscirà l’anno prossimo. La sfida è stata quella prima di capire bene Manzoni per poi poter scrivere bene in inglese. A volte mi chiedo cosa significhi scrivere bene in inglese al giorno d’oggi. L’inglese che sto usando adesso per tradurre Manzoni mi chiedo se non sia un inglese del passato, fatto di frasi lunghe, non comuni, utilizzo anche un linguaggio liturgico ormai desueto. Quando traduci qualcosa di così elevato come Manzoni, riscopri anche la ricchezza della tua lingua, ed il tuo senso critico si acuisce. Dopo Manzoni tradurrò qualcosa di più corto e “leggero”, I racconti romani e La disubbidienza di Alberto Moravia”.