Maria vive in un borgo di pescatori a Castel Volturno dove aiuta un’anziana aguzzina nello sfruttamento della prostitute per la maternità surrogata e le adozioni illegali. La protagonista vive un’esistenza squallida prendendosi cura della madre e della sorella, senza un barlume di speranza né di felicità. Quando scopre di essere anche lei incinta, decide di portare avanti la gravidanza a rischio, aggrappandosi tenacemente alla speranza di una vita migliore.

“Il vizio della speranza”, quinto lungometraggio del regista napoletano Edoardo De Angelis, vincitore del premio del pubblico all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma e premiato a Tokyo come “Migliore regia” e “Migliore attrice protagonista”, Pina Turco, è ambientato a Castel Volturno, tra discariche e un villaggio balneare una volta ritrovo della borghesia napoletana e casertana, ora abbandonato dopo il tremendo terremoto del 1980 e teatro della criminalità organizzata, italiana e nigeriana.
Un film molto riuscito, in cui finalmente anche la musica (creata da Enzo Avitabile) è un elemento molto importante, perché esigenza dell’anima, e che stravolge per certi versi l’edulcorata fiaba di Natale, trasformandosi in parabola: la fede, la speranza, spesso considerate “scandalose” da chi cerca una giustificazione al proprio lassismo, sono alla base di ogni “rivoluzione” personale e sociale e la nascita di un bambino è sempre un evento miracoloso che non può essere legato solo a condizioni economiche preesistenti. Nel film, immerso in situazioni di alba o tramonto e dove il freddo la fa da padrone, vince chi resiste all’inverno della vita e poi agisce, non sta fermo, non appena si presenta l’occasione di una svolta. Il ciclo vitale lotta contro la morte, da qui la rinascita: tutto ciò che resta immobile muore, ma per chi ha la forza, anche mentale, di muoversi, di resistere, c’è il ‘miracoloso’ prodigio del mondo che rinasce.
Peccato che “Il vizio della speranza” non abbia trovato posto al recente Festival di Venezia perché rifiutato dal direttore Alberto Barbera, che già in precedenza aveva mal giudicato il lavoro di Edoardo De Angelis snobbando il film “Indivisibili”, poi vincitore di 6 David di Donatello!
Qual è stata la spinta, personale o sociale, dietro a “Il vizio della speranza”?, abbiamo chiesto al regista napoletano.
“La spinta è stata personale e sociale. Avevo voglia di creare una storia semplice, legata ad una nascita e così ho voluto fare la mia personale visione del Natale, una festa che si celebra in inverno, quando la natura è fredda, sembra morta, dicendo: accendiamo un fuoco, per riscaldarci, in attesa che torni la primavera e la natura rinasca. La spinta sociale è nata dall’indagine su una terra che è meravigliosa, violentata, ma che io amo profondamente, e quindi questa spinta ha anche un senso politico sottolineando l’intento di una donna che utilizza il suo moto di ribellione non tanto per abbandonare il luogo dove è cresciuta e che l’ha allevata avvelenandola come un ventre malefico, ma per provare a ribaltarlo dall’interno”.
Quella di Maria, metaforicamente, può quindi anche essere vista come una ribellione ai tanti stereotipi che vengono utilizzati quando si parla di Campania.
“Si, anche, ma non solo al modo in cui la si vede ma anche al modo in cui la si violenta sistematicamente. Non solo la Campania, ma in generale la terra”.

Qual è il tuo rapporto cinematografico con la Campania?
“Ho sempre rifiutato le diaspore delle produzioni verso le Film Commission di regioni più ricche della nostra, ho sempre ritenuto che le storie debbano vivere nelle terra che le ha generate. Detesto la parola ‘location’: mi sembra contenga un’idea di saccheggio di luoghi che invece dovrebbero essere ‘arati’ e onorati dalle nostre storie”.
In “Il vizio della speranza”, ma anche, per certi versi, in “Indivisibili”, si respira un’aria quasi ‘religiosa’: un impulso da ‘regista visionario’ – come ti definì il grande regista Emir Kusturica, poi produttore del tuo “Mozzarella Stories” – o da regista di un nuovo neorealismo che non rappresenta nei suoi film solo la realtà sociale ma anche le emozioni interiori dell’Italia di oggi?
“Le definizioni spettano ad altri. Io posso dirti che lavoro e cerco sempre di scovare nella realtà che indago il suo aspetto magico e la realtà, per quanto desolata possa apparire, ha sempre dentro di sè un lato magico, inspiegabile, come lo è la vita stessa, e quindi l’estetica realista non la trovo più sufficiente: bisogna fare un salto che vada oltre la realtà, che la superi, perché per raccontare la verità a volte bisogna distaccarsi dal mero verismo”.
In quali aspetti la sceneggiatura del film è stata influenzata dalla realtà campana?
“Sicuramente nella ricostruzione del mondo in cui vivono i personaggi. Conosco bene la realtà di Castel Volturno. Un po’ di tempo fa un amico mi propose di risalire il fiume, cosa che non avevo mai fatto, e risalendolo ho scoperto dietro casa mia un mondo che fino a quel momento mi era sconosciuto. Mi commuove molto la possibilità di scoprire ancora angoli ignoti dentro casa propria. Risalendo il fiume ho visto varie baracche, piccoli insediamenti che sembravano abbandonati ma erano invece pieni di vita. E’ stato dall’incontri con uomini e donne di questi luoghi che è nato il personaggio di Maria”.
Cosa rappresenta questa tua nuova Maria?
“Maria è la sintesi degli uomini e delle donne che ho incontrato preparando il film: pur se con storie diverse, avevano tutte dentro una certa disperazione, ma al tempo stesso anche un desiderio, mai esausto, di liberazione”.
“Il vizio della speranza” ha richiamato in me, cattolico, il bisogno di dare un senso alla vita, non solo propria: cos’è per te la fede, la preghiera?
“Mi fa piacere questa domanda, perché questo film vuole essere la mia preghiera. Per me pregare significa riflettere sul proprio limite e rivolgersi oltre quel limite, volgere il proprio desiderio oltre quel limite, per superarlo anche solo millimetricamente”.
Il film, duro sì, ma anche commovente, capace di toccare corde intime, sociali e personali, e non solo perché l’aria del film è quella del Natale: che ne pensi di questa reazione?
“Confesso che provo grande soddisfazione, perché per me fare un film è come confezionare un regalo per un amico: mentre lui lo scarta speri sempre che gli possa piacere. Quando poi scopri che hai scelto il regalo giusto è una grossa soddisfazione. Il regalare è già un gesto d’amore, e desideri che questo gesto venga compreso. Oltre ad essere questo mio film – come dicevo prima – una mia preghiera, mi rendo conto pure che è un film molto intimo per me perché per farlo ho cercato di sondare le parti più profonde di me stesso. Capisco anche che qualcuno possa provare una certa forma di imbarazzo davanti a questa intimità, però credo che sia un gesto doveroso nei confronti di chi compie già l’atto di generosità di dedicare alla regia di un film il proprio tempo”.
Edoardo De Angelis, i fratelli Minetti, Paolo Sorrentino, Claudio Giovannesi, Andrea Segre, e tanti altri: si può parlare di rinascita del cinema partenopeo? E se sì, cosa c’è alla base del fenomeno, al di là della ribellione ai tanti stupidi stereotipi sulla realtà campana?
“Credo che la Campania sia terra di grande sofferenza e grande gioia. Per me gioia più piena è quella che costa dolore, per me il premio migliore è quello che è costato fatica. La Campania è terra di tanta fatica ma anche di premio. E’ possibile che questo sia un grande propulsore di storia”.
Che tipo di spettatore cinematografico sei?
“Io vedo pochissimi film, ma tantissime volte perché il film è un’opera stratificata, sfaccettata, che si muove contemporaneamente in tante direzioni. L’unica cosa che chiedo ad un film è che mi emozioni, che mi lasci un ricordo: se questo non avviene, il mestiere di fare cinema non ha senso”.