Le Conversazioni, la kermesse letteraria ideata da Antonio Monda e Davide Azzolini, dà il via alla tredicesima edizione in Italia con un incontro che vede come protagoniste Liliana Cavani e Paola Cortellesi.


Il format romano prevede che gli ospiti scelgano delle opere d’arte, nelle forme più svariate (un quadro, un film, una canzone che apprezzano particolarmente), e raccontino cosa rappresentano per loro.
La prima scelta di Liliana Cavani cade su un quadro del 1604 di Caravaggio La Madonna dei Pellegrini, ovvero La Madonna di Loreto, un dipinto che si trova attualmente nella Chiesa di Sant’Agostino a Roma. La bellezza e la portata innovatrice di questo quadro risiedono nel fatto che Maria viene rappresentata come una popolana, autentica, credibile e, finalmente, non celestiale. Caravaggio, che ha con la religione una rapporto molto complesso e tuttavia rimane sempre all’interno della riflessione su Cristo, rompe con una tradizione che celebra il miracolo, e dipinge una madre disinvolta, non dimessa, quasi incuriosita dalla devozione dei pellegrini.
Caravaggio, che Liliana Cavani considera un teologo, oltre che uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, è stato anche un assassino. Come relazionarsi a un artista che si è macchiato di un crimine così orrendo, e in che modo quest’atto orribile pesa sulla sua arte? È possibile, nella fattispecie, che il gesto di Caravaggio sia stato un mero atto di difesa; del resto, la storia è piena di personaggi dal talento straordinario le cui idee e azioni rimangono, tuttavia, discutibili. Céline, ad esempio, ha scritto uno dei libri più belli del Novecento, Viaggio al termine della notte, ma anche dei libelli dal contenuto antisemita. Qual è il rapporto tra arte e morale?

Per Paola Cortellesi, se l’artista è contemporaneo, è impossibile disinteressarsi della sua condotta generale – in sala qualcuno mormora un’illusione alle recenti denunce sugli abusi sessuali. La tendenza è quella di esprimere un giudizio; aggiunge, però, che la forza dell’arte è quella di essere immortale, di continuare a emozionare, come a lei succede con Guernica. Il quadro che Picasso dipinge tra maggio e giugno del 1937, in seguito al bombardamento della città per opera dei bombardieri tedeschi e italiani, racconta la guerra in modo così potente ed evocativo da mantenere il proprio impatto anche in un’epoca come la nostra, che ci sottopone continuamente immagini di estrema violenza.

La bellezza ci può trafiggere come un dolore, scriveva Thomas Mann. La scelta letteraria di Liliana Cavani va a La Montagna Incantata, romanzo di formazione di un giovane, della difficoltà di crescere, di capire chi siamo, e di distinguere il bene dal male in un momento storico particolarmente delicato, quello tra le due guerre.
Quello di Hans Castorp è un percorso di vita nel quale chiunque può riconoscersi, ed è probabilmente questa la ragione per cui la scrittura di Mann ha esercitato una così grande influenza sulle prime esperienze di lavoro di Liliana Cavani.
Neanche Mann è immune da ambivalenze: subisce il fascino di Wagner, personaggio geniale e controverso, di cui riconosce la grandezza, ma critica l’uso che ne fa il regime per averlo scelto come modello, sposandone le idee.
Paola Cortellesi confida di essersi trovata in difficoltà nella scegliere un libro, e di aver superato l’impasse attingendo a un momento molto importante della sua adolescenza, l’anno in cui una sua insegnante di liceo le consigliò Il Nome della Rosa.

Com’è noto, la storia ruota attorno a Guglielmo da Baskerville, un francescano che investiga su degli omicidi avvenuti all’interno di un’abbazia. L’assassino è Jorge da Burgos, che uccide chiunque abbia letto il secondo libro della Poetica di Aristotele, un testo “pericoloso” perchè elogia il riso e celebra la dignità e l’importanza della commedia.
L’attrice racconta che, all’epoca, non sapeva cosa avrebbe fatto da grande, ma sapeva di amare la commedia all’italiana e di apprezzare moltissimo l’umorismo. Viveva, però, questa passione con una sorta di solitudine e senso d’esclusione perché “le persone serie” la annoveravano tra i generi “minori”. Un capolavoro scritto da Umberto Eco, letto da cinquanta milioni di persone in tutto il mondo e tradotto in oltre quaranta lingue l’ha in un certo senso incoraggiata, perché riscatta e fa comprendere la potenza esplosiva dell’umorismo.

Eppure nel palmarès di Cannes, di Venezia, degli Oscar raramente compaiono delle commedie. Perché? Molière, Goldoni, Shakespeare scrivevano commedie. Secondo Monda, Lubitsch non è meno grande di Bergman, e Monicelli non meno geniale di Olmi. La teoria avanzata da Paola Cortellesi è che non tutti posseggono il senso dell’umorismo, e chi non ce l’ha pensa che gli altri siano un pò meno intelligenti.
Anche la Chiesa l’ha osteggiato, come si evince in un passo del libro in cui Jorge spiega il perché di propri delitti: “Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è timor di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio: e il riso si disegnerebbe come l’arte nuova, ignota persino a Prometeo, per annullare la paura. Al villano che ride, in quel momento, non importa di morire: ma poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte attraverso l’affrancamento dalla paura. E cosa saremmo, noi creature peccatrici, senza la paura, forse il più provvido, e affettuoso dei doni divini?”
Il riso è liberatorio, toglie la paura e il malumore, e demistifica il potere. Troppo spesso, però, sentiamo il bisogno di prenderci sul serio, e un film drammatico conforta questa nostra insicurezza meglio di una commedia. Il pregiudizio, a volte, attecchisce anche nel mondo della critica, ma chiunque abbia un po’ di familiarità col cinema e sia dotato di onestà intellettuale sa che far ridere può essere anche più difficile che interpretare un dramma.
I due aspetti della vita spesso convivono, come nell’Oro di Napoli, un film poetico che Liliana Cavani sceglie perché racconta la vita nella sua interezza. Anche in questo caso, quando si chiede quali siano i più grandi film di De Sica, solitamente ci si sente rispondere Ladri di biciclette, Sciuscà, Umberto D, Miracolo a Milano. Capolavori assoluti, certo, ma non più dell’Oro di Napoli, che pure viene citato meno. La grandezza di De Sica, che ama tutti i suoi personaggi, è nel suo approccio umanista, che si estende anche ai più meschini e miserabili.
Spielberg è un altro autore che è stato apprezzato in ritardo, con Schindler’s list, e la stessa sorte è toccata a tanti cineasti italiani.
Il motivo per cui alcuni critici, in maniera miope, non sempre sono stati in grado di apprezzare Fellini, la svolta di De Sica o la commedia all’italiana è che non sono riusciti a uscire dalla propria ideologia e a capire che quelli non erano tradimenti, ma un’evoluzione del neorealismo. Le prime recensioni di film di Fellini sono pervase da una una freddezza assoluta, perché guardavano al regista come a qualcuno a cui piaceva semplicemente scherzare col cinema. C’è poca lungimiranza nel non capire che la grandezza di un maestro può trovare molte strade per esprimersi. Ne è un esempio Anna Magnani, che in Bellissima, il film scelto da Paola Cortellesi, passa disinvoltamente da una scena drammatica al registro della commedia.

Guardare lontano, rischiare, innovare, amare quello che si fa, e attingere al proprio senso dell’umorismo: forse è questo che definisce un artista.