Per fortuita coincidenza due mostre in corso in questi giorni a New York illustrano la stessa possibilità: che per ragioni anche banali, un artista di primissima grandezza e in piena attività rimanga nascosto per secoli o anche per sempre nelle pieghe della storia.
La prima di queste due mostre ha luogo nel Metropolitan Museum e ha per titolo “Cristobal de Villalpando: Mexican painter of the Baroque”. Se questo artista, che i curatori della mostra presentano come il più grande della sua epoca nel Messico coloniale né voi né io, né la gran maggioranza della gente, non l’aveva mai sentito nominare, la ragione è molto semplice: la distanza che ha separato fino a un recentissimo passato i paesi europei dalla fascia tropicale del Centro America. Al tempo di questo artista, attivo oltre tre secoli fa, il Messico era un vicereame spagnolo – la Nuova Spagna – e comprendeva, oltre al territorio attuale, anche due futuri stati nordamericani, la Luisiana e la Florida. Villalpando lavorava nelle sperdute chiese delle missioni cattoliche dell’entroterra e finora, pur essendo debitamente apprezzato in Messico, la sua opera era rimasta praticamente sconosciuta altrove. Adesso la grandezza non solo spirituale ma anche materiale della sua opera viene esposta praticamente al resto del mondo dal più prestigioso museo degli Stati Uniti, che l’anno scorso ha avuto oltre sette milioni di visitatori annui. Ha così il modo di imporlo all’attenzione del mondo; e questo grazie a uno sforzo che si può dire eroico, facendo trasportare dalla cattedrale di Puebla, una delle antiche città dell’epoca coloniale al centro del Messico, la più monumentale di tutte le opere dell’artista, una pala d’altare alta otto metri. Piazzata al centro del museo accanto ad altre tele minori dell’artista, la pala è resa visibile da ogni distanza e da ogni prospettiva contemporaneamente da due piani dell’edificio. È una apparizione fantomatica impressionante: l’immenso quadro riunisce tre soggetti evangelici, il “serpente di bronzo”, la passione di Cristo nel giardino e la Trasfigurazione, che nessuno aveva mai messo insieme, in una sovrapposizione che il pittore giustifica con una fantastica composizione verticale e con un’irruzione di forme e colori accesi da una luminosità straordinaria, che ha ben scarsi debiti o paralleli nel Barocco europeo. Villalpando, infatti, non aveva mai visto, eccetto che bianco e nero su stampe, quadri dei suoi contemporanei di oltreoceano. La luce di questo immenso quadro, che anima anche altre sue tele minori che sono esposte accanto, ha una diffusione e una forza tutte particolari, che non sono né quelle di Rubens né quelle dei veneziani, e tanto meno quella di Caravaggio, che all’epoca – il 1683 per questa tela della cattedrale di Puebla – dominavano in maniera quasi totale la pittura europea.
L’altro artista che riaffiora oggi alla coscienza mondiale, in questo caso dopo un’assenza di poco più di un secolo, ha la sua prima retrospettiva in un altro prestigioso museo newyorkese a pochi passi dal Metropolitan, la Neue Galerie specializzata in arte tedesca e austriaca. Si chiama Richard Gerstl e la ragione della sua comparsa quasi totale dalla scena sia culturale che commerciale dell’arte è ben diversa e più tragica: il suicidio del pittore a 25 anni, forse per malattia mentale, forse per l’esplosione di uno scandalo di cui era protagonista. Amico del compositore Arnold Schönberg e personaggio centrale del circolo artistico che si era formato intorno a questo inventore della “musica dodecafonica”, era stato travolto dopo poco dopo da una passione per la moglie dello stesso, Mathilde, e i due erano diventati amanti. Quando il legame, durato solo un breve tempo, era stato scoperto, Gerstl era stato abbandonato dalla moglie di Schönberg e bandito dal circolo artistico in cui si muovevano tutti e due; questo è stato ritenuto la causa del suo suicidio, commesso da Gerstl nel suo studio prima con un tentativo non riuscito di impiccagione, poi con due coltellate al petto. Nessuna delle sue opere era stata mai esposta, e prima di uccidersi Gerstl ne aveva distrutto molte. Nella cattolicissima Austria la sua famiglia aveva cercato di mettere tutto a tacere, e aveva tra l’altro chiuso quanto rimaneva in casse che solo dopo molti anni sono state aperte. Sono dipinti di una libertà e di un’immediatezza straordinarie, che, nell’epoca ancora compassata in cui trionfava il decorativismo di un Klimt, precedono di molti anni quello che sarebbe stato chiamato l’Espressionismo austriaco, la sbrigliatezza di uno Schiele o quella di un Kokoschka. C’è anche nella sua pittura quel tanto di follia che, sei anni dopo la sua morte, avrebbe piombato in primo luogo l’Austria poi il resto del pianeta in un cataclisma di cui si sentono perfettamente ancora oggi gli echi.