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May 28, 2017
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Il difficile verdetto di Cannes 70

In attesa dei premi ufficiali, Cannes 70 va in archivio come una delle peggiori edizioni degli ultimi anni

Simone SpoladoribySimone Spoladori
Il difficile verdetto di Cannes 70
Time: 7 mins read

Mancano solo i premi: questa edizione di Cannes non è mai riuscita a prendere quota. Un’annata storta, capita. Del resto, dopo la pirotecnica selezione dello scorso anno – cui è seguita, ricordiamolo, anche un’edizione di Venezia a dir poco sontuosa – ci sta un anno di magra.
Negli ultimi giorni del concorso, a tentare di risollevare le sorti di questo derelitto palinsesto, sono sbarcati sulla Croisette Sofia Coppola e la sua versione del romanzo The Beguiled di Thomas P. Cullinan, che fu già un grande film di Don Siegel del 1971 con Clint Eastwood protagonista; il divo Robert Pattinson, in Good Time, di Bennie e Josh Safdie, che ha dimostrato, forse per la prima volta, di essere un attore vero; l’onirico e in parte deludente Krotkaya, di Sergeij Loznitsa e i controversi film di Francois Ozon (L’Amant Double) e Fatih Akin (In the Fade), che hanno diviso gli addetti ai lavori.

Vediamoli nel dettaglio, prima di azzardare anche le Palme de La voce di New York.

The Beguiled, di Sofia Coppola

The Beguiled, di Sofia Coppola
The Beguiled, di Sofia Coppola – Cannes 70, concorso

Siamo agli sgoccioli della guerra civile americana, seconda metà dell’Ottocento. In un oscuro bosco della Virginia giace il soldato Jonathan, nordista e ferito gravemente a una gamba. Lo recupera, mentre cerca dei funghi, una ragazzina di bianco vestita, che lo porta nella sua casa per essere curato secondo carità cristiana: una villa neoclassica coloniale, bianca e austera, in cui vive una piccola comunità di donne, un gineceo retto dalla severa Miss Martha (Nicole Kidman), formato da sei fanciulle di diverse età. Le loro giornate trascorrono tra lezioni di francese (in cui si ripassano le coniugazioni senza il pronome personale maschile “il”, bandito) e di piano, preghiere e cucito, nella più completa rimozione di qualsiasi pulsione sessuale e di qualsiasi significante maschile. Pulsioni, ovviamente risvegliate dal bel soldato, che trasforma le un tempo candide amiche in perfide rivali, spingendole fino a limiti impensabili.

L’intervento che Coppola opera rispetto alla versione di Siegel è la “rotazione” del punto di vista. Nel film del 1971, la prospettiva era quella maschile: Eastwood, seduttore e manipolatore, monopolizzava il racconto, che veniva filtrato dal suo personaggio, tanto da farcene visualizzare fantasie e sogni. Coppola “esce” dalla focalizzazione interna e sceglie un’impostazione decisamente femminista. Il “luogo senza uomini” in cui le fanciulle abitano è come disinfestato dal maschile, elemento portatore di discordie e di violenza: fuori gli uomini combattono una guerra assurda, mentre le sei fanciulle si chiudono in una torre d’avorio sicura. Quando il soldato Farrell entra nel microcosmo chiuso della villa femminile, introduce una variabile pulsionale che non è controllabile poiché risveglia il desiderio. Intelligente e girato con eleganza e classe, è impreziosito dal coinvolgente score realizzato dalla band francese Phoenix.

Good Time, di Bennie e Josh Safdie

 

Good Time, di Bennie e Josh Safdie
Good Time, di Bennie e Josh Safdie – Cannes 70, concorso

A Venezia nel 2014 avevamo potuto apprezzare il selvaggio e super indie Heaven Knows What nella sezione Orizzonti.
I fratelli Safdie ora finiscono addirittura nel concorso principale, e data l’inconsistenza della selezione di quest’anno, benchè ancora acerbi, non sono sicuramente fuori posto.
Il thriller Good Time è infatti un buon lavoro, che conferma il talento dei due filmaker e soprattutto riesce nell’impresa di trasformare definitivamente Robert Pattinson in un attore “vero”.
Tutto in meno di ventiquattro ore: Nik Nikas è un ragazzo disabile e spaesato, suo fratello Connie un piccolo criminale che ha un piano per sistemare entrambi: una rapina in banca che sembra semplicissima, anche per suo fratello. Le cose vanno male e Connie si ritrova solo, a cercare di compiere una nuova rapina per far uscire suo fratello dall’ospedale penitenziario in cui è stato richiuso.

Il film dei fratelli Safdie parte alla grande e per almeno metà della sua durata ha la compattezza e la forza dei migliori romanzi di Elmore Leonard.Poi, i due fratelli si lasciano prendere la mano e il film, drammaturgicamente, via via si sfilaccia fino a un finale non all’altezza. In questa struttura non omogena, i due giovanissimi cineasti infilano alcune sequenze da antologia: la rapina e il successivo inseguimento sono un piccolo gioiello di humour nero e azione, la tentata evasione dall’ospedale è esilarante. Nella notte newyorchese, quella che emerge da Good Time è una rappresentazione del crimine molto efficace e originale: i delinquenti di Good Time non fanno piani machiavellici, agiscono solo con l’improvvisazione, seguono la caualità e non possono fare a meno di assecondare la loro tendenza parassitaria.I Safdie, dal canto loro, ormai sono più che una promessa, ma per la consacrazione definitiva c’è ancora da aspettare.
Intanto, Pattinson è sicuramente da palma.

Krotkaya, di Sergeij Loznitsa

Krotkaya, di Sergeij Loznitsa
Krotkaya, di Sergeij Loznitsa – Cannes 70, concorso

La Russia è una gigantesca prigione, più affollata che mai nelle aree rurali, selvagge e pericolose. Il film di Loznitsa è tutto qui, peccato si dilunghi per quasi due ore e mezza sovrabbondanti di parole, volti e suoni. Due ore e mezza che raccontano il viaggio che una donna compie, dall’estrema periferia contadina dell’immensa terra russa, per recarsi da suo marito, detenuto nel carcere di una remota regione del paese, per capire che cosa gli sia successo: le ultime lettere che la donna gli ha scritto, infatti, sono state rimandate al mittente, senza un’apparente spiegazione. La sua diventa una vera e propria discesa progressiva verso l’inferno, in cui ogni tappa diventa un cerchio di dannati segnati dal dolore. Liberamente ispirato al racconto “La mite” di Dostoevskij, il film di Loznitsa (regista recentemente lodato per il bellissimo Austerlitz) è visivamente barocco e suggestivo ma spesso sopra le righe e fuori controllo, appesantito, inoltre, da un finale onirico didascalico e “stonato” rispetto al resto del film.

L’Amant Double, di Francois Ozon

L'Amant Double, di Francois Ozon
L’Amant Double, di Francois Ozon – Cannes 70, concorso

L’amant double ha un incipit memorabile: il taglio di capelli della protagonista Chloe (la bellissima Marine Vacth), poi la ripresa dell’interno della sua vagina e infine, stacco netto, il primissimo piano di un occhio. Non solo Ozon ci ricorda che il desiderio è causato dallo sguardo, ma sottolinea in modo provocatorio e compiaciuto come non esistano, di fatto, distinzioni e barriere tra interno ed esterno, offrendoci, da subito, una sorta di legenda per muoverci nel suo film.

Di L’amant double rinunciamo a dirvi la trama, troppo alto il rischio di spoilerare i numerosi twist narrativi, alcuni, peraltro, abbastanza telefonati. Ci limitiamo a dire che il film parla di gemelli, di fetus in fetu, di doppio, di pulsioni e castrazioni, e che va letto – come sottolinea la posologica sequenza iniziale – interamente in chiave simbolica, rinunciando a distinguere realmente ciò che è “interno” alla vita psichica ed emotiva della sua protagonista da ciò che accade realmente: forse tutto è interno e – quindi – tutto (non) accade realmente. Tratto da un racconto di Joyce Carol Oates, patinato e morboso come un film di De Palma, colmo di omaggi divertiti e mai pesanti a Hitchcock e Cronenberg, L’amant double del camaleontico Francois Ozon è un thriller entusiasmante, colto, divertito e divertente, a nostro modo di vedere il film più interessante transitato da Cannes 70.

Aus dem Nichts, di Fatih Akin

Aus dem Nichts, di Fatih Akin
Aus dem Nichts, di Fatih Akin – Cannes 70, concorso

Film reazionario o opera capace di intercettare lo spirito del tempo? Greve narrazione semplificatoria o efficace provocazione capace di ribaltare le prospettive? Il nuovo film di Fatih Akin (La sposa turca, Soul Kitchen) ha diviso la Croisette tra detrattori che lo hanno definito addirittura “pericoloso” e chi invece lo ha visto come un’opera potente ed efficace.
Diciamo, un po’ salomonicamente, che entrambi gli schieramenti hanno delle buone ragioni. Sicuramente da Akin non ci si può attendere un cinema raffinato e riflessivo: il regista tedesco ha sempre scritto e diretto di pancia e non a caso il suo film meno riuscito, a oggi, è probabilmente quello con le ambizioni intellettuali più “alte”, Il padre (The Cut), in concorso Venezia nel 2014, maldestro affresco storico sul genocidio armeno.

Quindi, selezione all’ingresso: posto che da Akin non ci si può attendere un cinema diverso, meno “tamarro”, chi non ci sta si accomodi altrove. Il rischio sta indubbiamente nel fatto che un autore con la mano pesante come Akin si accosti a un tema delicato come quello del terrorismo. In realtà, Akin prende di petto uno dei tanti temi che nell’Europa dei Merklel e Macron passa sotto silenzio con troppa leggerezza: la forza e la pericolosità dell’estrema destra, che in Europa si è fatta “rete” e che causa danni devastanti nel quasi assoluto silenzio. Solo nel 2016, la Germania ha visto raddoppiare rispetto all’anno precedente il numero di azioni violente a sfondo razziale da parte di gruppi di estrema destra locali ma legati a movimenti di altre nazioni, come Alba Dorata in Grecia, che hanno preso di mira centri di accoglienza per profughi e minoranze etniche. Akin prende la diva Diane Kruger e le costruisce addosso una storia in tre atti congegnata come un racconto “morale” che non va molto per il sottile: una donna tedesca vede ucciso in un attentato di neonazi suo marito turco e il figlioletto. La magistratura non riesce a venirne a capo, la donna inizia a pensare di farsi giustizia da sola. Tutti siamo potenziali giustizieri, questo è il lato “pericoloso” del film di Akin. D’altra parte, però, costringendoci all’empatia con la protagonista del film, Akin ci spinge anche a riflettere sul senso di disperata frustrazione che spinge all’azione chi compie un gesto estremo, che percepisce come “ingiuste” dinamiche perfettamente normali per la nostra società e matura un senso di vendetta per quelle ingiustizie che noi nemmeno riusciamo a vedere.

Nota di merito: Tesnota, di Kantemir Balagov

Tesnota, di Kantemir Balagov – Cannes 70, Un Certain Regard

È il bello di Un Certain Regard, il “concorso b” di Cannes: in mezzo a nomi noti si possono incontrare grandi e gradite sorprese. Tesnota è una di queste scoperte, un piccolo miracolo di efficacia narrativa e forza stilistica, che purtroppo e inspiegabilmente non è stato premiato dalla giuria presieduta da Uma Thurman, che preferito il discreto Lerd di Mohammad Rasoulof e ha premiato, piuttosto a sorpresa, Jasmine Trinca per Fortunata di Sergio Castellitto. Girato in un efficace 4:3, che rende ancora meglio il senso di “prigionia” dei personaggi, è ambientato a Nalchik, nel Caucaso settentrionale, nel 1998. Qui vive la ventiquattrenne Ilana (Darya Zhovner), 24 anni, aiuto-meccanico del padre e primogenita di una famiglia appartenente alla comunità ebraica.
 Una sera,durante  il festeggiamento per il fidanzamento del fratello David, il ragazzo viene rapito insieme alla sua promessa sposa. Chiamare la polizia, per la comunità, è inconcepibile, così bisogna rcaccogliere i soldi per il riscatto.
La famiglia di David, per salvare il figlio, sarà disposta a sacrificare la felicità di Ilana (Darya Zhovner, interpretazione straordinaria), intensa protagonista del film. Intorno, intanto, si prepara l’escalation del secondo conflitto ceceno, che irrompe nella narrazione attraverso il videotape di una tortura guardato a casa dagli amici di Ilana. Libero nello stile, eccellente nella direzione degli attori e con una profondità di scrittura veramente unica, Kantemir Balagov, a soli 25 anni, è un talento vero, che, al suo secondo lungometraggio, la giuria di Un Certain Regard avrebbe dovuto premiare.

Le palme de La voce di New York

Chi vincerà? Una selezione così modesta e colma di delusioni rende difficile ogni pronostico. La bizzarria del presidente di giuria, Pedro Almodovar, contrapposta all’idea di cinema decisamente opposta che hanno altri due giurati-autori come Paolo Sorrentino e Park Chan-Wook, rende tutto ancora più incerto. Ciononostante non ci sottraiamo e proviamo ad assegnare le nostre Palme. Non quelle che prevediamo saranno assegnate, ma quelle che vorremmo vedere consegnate sul Palco del Gran Theatre Lumiere questa sera.

Miglior film, il podio:
120 battements par minute, di Robin Campillo
L’amant double, di Francois Ozon
Happy End, di Michael Haneke

Miglior regia:
The Beguiled, Sofia Coppola

Miglior attore:
Robert Pattinson, Good Time

Miglior attrice:
Diane Kruger, Auf dem Nichts

Ora non ci resta che attendere i verdetti della giuria ufficiale.

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Simone Spoladori

Simone Spoladori

Nato a Milano, laureato in lettere e laureando in psicologia, di segno pesci ma non praticante, soffro di inveterato horror vacui. Autore per radio e TV, critico cinematografico, insegnante, direttore di un'agenzia creativa di Milano. Oltre ai film, amo i libri e credo che la letteratura americana del '900 una delle prime tre cose per cui valga la pena vivere. Meglio omettere le altre due. Drogato di serie TV, vorrei assomigliare a Don Draper, a Walter White o a Jimmy McNulty. Quando trovo il tempo, mi diverte a scalare montagne, fare foto, giocare a tennis, cucinare e soprattutto mangiare ciò che cucino. Sono malato di calcio, tifo Manchester United e Milan, ma la mia vera guida spirituale è Roger Federer.

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