L’esistenzialismo è affascinante. Perché si pone domande universali, quelle che ci facciamo fin da piccoli, senza il timore di sembrare personaggi dei Peanuts: Chi siamo? Cos’è che veramente è? Esiste il nulla? Qual è il senso della vita? Perché siamo soli di fronte all’assurdo dell’esistenza e alla morte?
L’esistenzialismo è affascinante anche per la sua varietà. A esso possono essere ricondotte sia le posizioni progressiste, quando non apertamente rivoluzionarie, di filosofi come Sartre, de Beauvoir, Camus – dal femminismo alla critica del colonialismo, fino al marxismo e all’anarchismo – sia quelle oscuramente reazionarie di Heidegger, con il suo Dasein, il suo essere-per-la-morte, il suo latente “sangue e suolo”, così tedesco, così cripto-nazista.
Ma, attenzione: gran parte del fascino esercitato dall’esistenzialismo è dovuto al fatto che gli esistenzialisti, nella loro incarnazione più nota, quella della Rive Gauche parigina, a cavallo fra gli anni ’40 e ’50, hanno forgiato uno stile di vita molto cool, fatto di locali e maglie dolcevita nere, di musica e libertà sessuale, di non-conformismo e di critica… dell’esistente, certo.
E ancora: al loro meglio, gli esistenzialisti hanno saputo coniugare le asperità del linguaggio filosofico con le suggestioni del romanzo e del teatro, in qualche caso con esiti duraturi e felici.
Gli esistenzialisti sono stati, in definitiva, le tormentate star di una brillante stagione contro-culturale. Europei, sono stati molto amati anche negli States, anche se gli americani hanno colto di essi più le cupezze e i rovelli interiori che il vitalismo e l’impegno. In ogni modo, il loro rifiuto del razzismo, il loro amore per il jazz, il loro allure libertario sono stati una importante fonte di ispirazione (anche per autori come Richard Wright o Norman Mailer).
Il trionfo della filosofia

Se oggi, da qui, da questi bastioni guardati dalla tecnologia e assediati dalle mareggiate della finanza internazionale, gettiamo uno sguardo a quegli anni, in particolare all’Europa che usciva distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale, eppure percorsa da impetuose – e neanche tanto sotterranee – correnti di energia, non possiamo non stupirci di quanto peso avessero assunto i filosofi al suo interno. Non solo nelle università.
La filosofia, mescolandosi a varie espressioni artistiche, in primis la letteratura, lasciava la sua impronta sulla società, ed era un’impronta ben visibile. Potremmo dire, esagerando un po’, che dal connubio di esistenzialismo e beat generation prese forma lo stesso ’68 (il quale terminò a sua volta il 15 aprile del 1980, ovviamente a Parigi, con i funerali di Sartre, scrisse Claude Lanzmann). Ma visto che questa è soprattutto una rubrica di libri, pensiamo a titoli come La Nausea, Lo straniero, La peste, anche (più tardi) Una donna spezzata: romanzi e racconti complessi, di chiara impronta filosofica, eppure destinati a una enorme popolarità, una popolarità poi proseguita nei vent’anni successivi alla loro uscita (due esempi fra i tanti, riferiti entrambi a Lo straniero di Camus: il film che ne ricavò Luchino Visconti nel 1967, con Marcello Mastroianni nel ruolo di Mersault, Leone d’Oro a Venezia, e 11 anni dopo Killing an arab, uno dei primi hit dei Cure).
Il libro di Sarah Bakewell Al caffè degli esistenzialisti, uscito in Italia nell’ultimo scorcio del 2016 per Fazi, ha il pregio di restituirci quella stagione straordinaria. Il sottotitolo, ammiccante, recita Libertà, Essere e Cocktail, riassumendo gli elementi fondativi di quella che all’epoca si impose come una nuova corrente di pensiero, ma anche, dicevamo, una nuova way of life. Su cui per una volta, forse l’ultima, la cultura anglosassone non esercitava la sua egemonia.
Però attenzione: non siamo in presenza di un libro frivolo o anedottico. In realtà i percorsi intellettuali che portano da Brentano a Sartre e a Camus, passando per Husserl, Jonas, Jasper, Arendt, Heidegger, sono disegnati con lucidità e rigore, anche se Bakewell – inglese di Bournemouth, già nota per una folgorante biografia di Montaigne – dà prova di notevoli capacità divulgative, il che rende il suo lavoro comunque accessibile a più livelli.
Il punto di partenza è un caffè parigino, il Bec-de-Gaz. È qui che si ritrovano tre ex-compagni di studi, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, già una coppia, all’epoca entrambi insegnanti di liceo in provincia, uno a Le Havre, l’altra a Rouen, e Raymond Aron, appena rientrato da Berlino, per conversare di filosofia bevendo la specialità della casa, un cocktail all’albicocca (Sartre in verità ricordava una birra, la parola definitiva l’ebbe de Beauvoir). Aron mette al corrente i due amici della maggiore novità filosofica del momento, la fenomenologia tedesca, e dei suoi due “campioni”, Husserl e Heidegger. “I fenomenologi tedeschi vanno diritto alla vita come questa viene esperita, attimo dopo attimo”, racconta loro, citando il famoso motto di Husserl: “Alle cose stesse!”. Che significa poi non perdere tempo a domandarsi se le cose siano reali, ma concentrarsi su come esse si presentano, e descriverle il più accuratamente possibile, “in soggettiva”, potremmo dire. “Vedì, mon petite camarade – conclude Aron – se sei un fenomenologo, puoi parlare di questo cocktail ed è filosofia!”.
La leggenda vuole che Sartre sia sbiancato: da tempo alla ricerca di qualcosa che scuotesse il mondo filosofico, così da raccogliere finalmente il successo al quale si sentiva predestinato, si rese conto che non ne sapeva praticamente nulla, a parte quanto scritto sul tema da Lévinas in un opuscolo di cui aveva capito pochissimo. La prima reazione fu precipitarsi nella libreria più vicina ordinando: “Datemi tutto quello che avete sulla fenomenologia! Subito!”. In realtà non c’era molto. Tant’è che alla fine decise di andare ad abbeverarsi direttamente alla fonte, trasferendosi a sua volta per un anno a Berlino, dove si immerse nella lettura dei “sacri testi”.
Dal nazismo alla Rive Gauche
Era il 1933, anno cruciale per il Germania. Il 30 gennaio Hitler prestava giuramento come cancelliere del Reich su investitura del presidente von Hinderburg. Il 28 febbraio, in seguito all’incendio del Reichstag, veniva emanato il decreto d’emergenza sulla sicurezza pubblica, che decretava di fatto la fine della democrazia in Germania. Nell’aprile di quello stesso anno Heidegger accettava – per un breve periodo – il rettorato dell’università di Friburgo, prendendo contestualmente la tessera del partito nazionalsocialista, condizione indispensabile per rivestire quella carica, e pronunciando il suo famoso discorso in odore di nazismo (stigmatizzato fra gli altri da Benedetto Croce).
Ma Sartre e de Bauvoir, come molti altri europei, inizialmente non diedero tanto peso a tutto questo, presi com’erano dai loro studi e dalle loro nuove scoperte. Del clima di violenza che si respirava nel Paese se ne accorsero quasi solo alla fine, al momento di rientrare in Francia.
Fatte queste premesse, il libro di Bakewell torna indietro. Dopo un breve excursus sui precursori filosofici degli esistenzialisti, Kierkegaard e Nietzsche, non a caso due filosofi “ribelli”, anomali e poco allineati, propone al lettore un’immersione nell’universo della fenomenologia, e quindi nella piccola Friburgo dei primi tre decenni del ‘900. Dove Husserl incitava i suoi allievi a “mettere tra parentesi” scuole e teorie pregresse e di andare al cuore della realtà stessa, cioè ai “fenomeni”. Heidegger in un primo tempo si mise sotto la sua ala protettrice, ma in seguito, con la pubblicazione di Essere e Tempo, la sua opera fondamentale, anche se incompiuta, prese le distanze dal maestro, aprendo la strada all’esistenzialismo e scavando anche un solco fra lui e Husserl che non si sarebbe mai colmato definitivamente. Anzi, che si sarebbe approfondito dopo l’avvento del nazismo e l’emanazione delle leggi razziali, che costrinsero Husserl, di origini ebraiche, a lasciare l’università (stessa sorte subì il figlio), senza che l’ex-allievo facesse alcunché per aiutarlo, tranne inviare alla famiglia un bouquet floreale.
L’universo di Heidegger, con il suo linguaggio criptico, la sua nostalgia per un passato idealizzato, le sue suggestioni rurali – il filosofo amava ritirarsi nella celebre Todtnauberg, una baita nella Foresta Nera, e atteggiarsi a contadino – è decisamente molto distante da quello della Parigi del secondo dopoguerra, dai caffè fumosi di Gauloises dove si esibiscono Boris Vian e Juliette Gréco, dove i filosofi e i loro amici discorrono di letteratura, cinema, sesso, rivoluzione, guerra d’Algeria, libertà, futuro. Distante addirittura anni luce da quello di Sartre, che già nel 1945 manda in estasi il pubblico parigino accorso a una sua conferenza pubblica alla Salle des Centraux sul tema “L’esistenzialismo è un umanesimo”. Quello stesso Sartre che non disdegna di provare la mescalina, ricavandone visioni orribili di serpenti, avvoltoi, e mostri a forma di crostaceo, che lo perseguiteranno per mesi e in parte finiranno in alcune delle sue opere. Quel Sartre, sempre lui, che negli anni ’50 sposa la causa social-comunista, simpatizzando prima per l’Urss e poi per la Cina maoista, conoscendo e frequentando fra gli altri Fidel Castro, Che Guevara, persino il giovane Saloth Sar, il futuro Pol Pot, autore del genocidio cambogiano. Salvo in seguito a prendere (tardivamente) le distanze dai regimi rivoluzionari e dalle dittature che avevano generato.
Eppure questi due mondi sono inscindibilmente legati. Il merito del libro è anche di riportare a galla queste parentele, forse un po’ oscurate dalla popolarità conosciuta dall’esistenzialismo francese, mentre la fama di Heidegger declinava, in attesa di tornare a rifulgere negli anni ’80 (e di essere nuovamente messa in discussione con la pubblicazione, solo nel 2014, dei primi Quaderni Neri, i diari degli anni ’30-’40 contenenti inequivocabili manifestazioni di antisemitismo). Del resto, va anche detto che Heidegger sempre respinse la definizione di esistenzialista come formulata da Sartre e che l’unico incontro a tu per tu che ebbero questi due giganti della filosofia fu un fallimento.
In mezzo, c’è stata ovviamente la grande cesura della Seconda Guerra Mondiale. Ed è molto bello per il lettore immergersi in alcune delle storie di quel periodo. Ad esempio, quella del salvataggio dei manoscritti di Husserl dalla furia iconoclasta dei nazisti, con valigie che passano di mano in mano e di nascondiglio in nascondiglio, da Friburgo a Berlino e poi finalmente a Lovanio. Per non dire della vita quotidiana a Parigi durante l’occupazione, o della bizzarra “fuga” di Sartre dal campo di prigionia dove era stato rinchiuso dopo la caduta della Francia (il filosofo, per via dei suoi problemi agli occhi, era stato destinato a una stazione meteorologica).
Eredità controversa

Che cosa rimane, oggi, di quelle vicende, di quella filosofia, e finanche di quei rovelli interiori? Che cosa rimane dell’assurdo, a cui gli esistenzialisti si ribellavano? Poco o nulla, sostengono alcuni. Del resto, l’esistenzialismo era già stato messo ai margini a suo tempo dallo strutturalismo e poi dal postmodernismo.
In realtà, tracce di esistenzialismo – con annessi e connessi – nella nostra cultura se ne trovano ancora. Intanto, la fenomenologia hussleriana è stata determinante per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Non solo: tutta l’ultima stagione di Husserl, quella che venne riscoperta a Lovanio da Merleau-Ponty, è gravida di indicazioni per l’oggi, con la sua esaltazione degli incontri con “l’altro”, degli scambi fra i popoli e le culture. L’Essere, in quest’ottica, è dato dalla relazione, non dal ripiegamento su se stessi e dall’introspezione esasperata.
Le posizioni del tardo Heidegger sulla tecnica e sullo sfruttamento delle risorse del pianeta da parte dell’uomo, d’altro canto, possono essere considerate anticipatrici dei movimenti ecologisti/verdi. E ancora: se Sartre oggi è effettivamente un po’ passato di moda (più di Simone de Beauvoir), Camus, sospeso fra due mondi, l’Algeria delle origini e la Francia, Camus dalle umili origini, che in questo libro ha uno spazio troppo esiguo, è rimasto un’icona di stile e la denuncia dei deliri del potere contenuta nel suo Caligola è più attuale che mai. In ogni modo, la coppia aperta Sartre-Beauvoir – fatta di un amore indissolubile e per la vita, ma anche di altri amori “alla luce del sole”, coltivati lungo il cammino – indica sempre una strada possibile.
Ma soprattutto, rimane valido l’anelito di libertà che pervade l’esistenzialismo francese, con tutte le responsabilità che ne conseguono. Sul piano filosofico, quell’anelito si traduce nella preminenza del libero arbitrio sul determinismo, sia esso di matrice biologica, culturale, sessuale o storica. “L’uomo è condannato a essere libero”, per usare una celebre proposizione dell’epoca, e quindi a decidere. Cosa che, nel 1945, all’indomani di Hiroshima, e di Auschwitz, era indubbiamente il più forte degli imperativi filosofici. “Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo decidere di vivere”. Non è Peanuts, ma anche se lo fosse, non sarebbe meno vero.
Va aggiunto però che non è tutto oro quel che luccica e che la “scomunica” di Camus da parte di Sartre, dopo la pubblicazione de L’uomo in rivolta, è di quelle che hanno lasciato il segno. Bakewell la liquida un po’ sbrigativamente, sforzandosi di giustificare Sartre: in quel frangente, nel clima sulfureo dei primi anni ‘50 e dell’inizio della Guerra Fredda, evidentemente Sartre, così preso dalla scoperta dell’impegno politico e del comunismo, “considerava suo dovere mettere da parte l’affetto che sentiva nei confronti di Camus”, e comunque l’autore de L’essere e il nulla pensava che le azioni politiche andassero sempre calate nel loro tempo, non giudicate in astratto (il che però potrebbe portare a giustificare anche i Gulag sovietici e la repressione di stato, che Camus condannava senza possibilità di appello). Io penso semplicemente che ci sia sempre, a sinistra, qualcuno un po’ più a sinistra, pronto a epurare quello che lo è di meno. Anche in questo, l’eredità dell’esistenzialismo è tristemente attuale.
Un’ultima considerazione, un po’ pedante, sulla versione italiana del libro, che peraltro si presenta benissimo, con un ricco apparato di note e una bibliografia selezionata. Credo che scrivere “la de Beauvoir” o “la Harendt” sia da considerarsi ormai sbagliato. L’articolo femminile dovrebbe venire omesso, così come facciamo da tempo per quello maschile (nessuno oggi scriverebbe “il Sartre”, o “il Camus” anche se in passato lo si poteva fare).
Sarah Bakewell, Al caffè degli esistenzialisti, Fazi, 2016 (trad. Michele Zurlo).
Edizione originale: At the Existentialist Cafe: Freedom, Being, and Apricot Cocktails, Other Press, 2016.