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December 11, 2016
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I cent’anni di Kirk Douglas, una vita da Spartacus

Alla notizia della morte dell'attore ripresentiamo questo articolo del 2016 - Il grande attore, il cui vero nome è Issur Danielovitch Demsky, nasceva cento anni fa da genitori ebrei-russi

Valter VecelliobyValter Vecellio
I cent’anni di Kirk Douglas, una vita da Spartacus

Kirk Douglas in Spartacus (Immagine da youtube)

Time: 5 mins read

Un giorno di straordinaria lucentezza, e ventosa, come solo a Manhattan può capitare. Niente lavoro, a Roma non chiedono nulla; si approfitta per una passeggiata per la Fifth Avenue, che è sempre uno spettacolo. C’è un cartello, nella vetrina della libreria Barnes & Nobles, annuncia che di lì a qualche giorno si presenta The Gift, di Kirk Douglas: un libro che racconta la storia di due amanti decisamente fuori del comune; lei è una ereditiera americana ricca, snob, giovane e bella; lui un torero portoghese il cui declino è ancora più rapido della pur veloce  iniziale ascesa. Ma il vero protagonista è un cavallo grigio: è lui che cementa un legame inaspettato, intimo, tenero e appassionato. Tutti, in libreria, assicurano che The Gift è un piccolo capolavoro letterario, non bisogna perderlo, e poi il grande Kirk si fermerà per qualche minuto a firmare le copie… Come sia, è l’occasione per vedere dal vivo il protagonista di Spartacus di Stanley Kubrick. Di alcuni film di Douglas conosco e ricordo praticamente ogni sequenza: “L’asso nella manica” di Billy Wilder, per esempio; ma anche l’“Ulisse” di Mario Camerini, Le “Ventimila leghe sotto i mari” di Richard Fleischer; “Sette giorni a maggio” di John Frankenheimer; “La fratellanza” di Martin Ritt; ma soprattutto “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges, e “Orizzonti di gloria”, di Kubrick.

Ma è “Spartacus”, con la scena finale, il grido “I’m Spartacus” gridato a valanga da tutti gli schiavi, che ho stampata in mente. Un film che non è “solo” il racconto dall’omonimo romanzo di Howard Fast, non è “solo” il racconto di un gladiatore trace che sfida la repubblica di Roma.

E c’è un film, nel film. Si può cominciare dalla sceneggiatura: è di Dalton Trumbo, un principe nel suo campo, costretto tuttavia a lavorare sotto pseudonimo: sospettato di essere comunista, è finito nella “black list” della commissione guidata dal senatore Joseph McCarthy; di “Spartacus” Douglas è anche il produttore; ed è in questa veste che impone la sua presenza e appena può reinserisce il suo vero nome nei titoli. Da quel momento cade la regola non scritta che impedisce di far lavorare a Hollywood quanti sono finiti nelle liste maccartiste. Quell’orgogliosa rivendicazione “I’m Spartacus” non è la sola “attualità” del film. Un altro “classico” è quando il generale Crasso comunica a Sempronio Gracco che la sua vittoria comporterà l’esecuzione di un piano già predisposto: “In ogni città e provincia liste di dissidenti sono già compilate”. Risponde Gracco di essere consapevole che il suo nome compare nella lista; e da Crasso ne ricava la risposta: “Sei in testa!”.

Ci sono poi “accorgimenti” tecnici che fanno la felicità di amatori e cultori. Per esempio, per realizzare il frastuono delle imponenti scene di massa, Kubrick si “inventa” qualcosa di geniale: fa registrare con una particolare apparecchiatura i cori e gli incitamenti di circa ottantamila spettatori durante una gara di football degli Spartans, squadra del Michigan State Notre Dame College di Lansing.

Dato il clima di quegli anni, il film appare con molti tagli e con un finale incomprensibile. Faticosamente, e grazie a un prezioso lavoro di restauro, poi viene ricostruita una versione più aderente allo spirito originale del film e degli autori. Particolare: si recupera una scena, ai tempi ritenuta scabrosa, nella quale Crasso tenta di sedurre il giovane Antonino, che da questo fatto trova ragione di scappare per poi unirsi ai ribelli. Nella versione “purgata” Antonino prima figura in casa di Crasso; più tardi, senza alcuna spiegazione, lo si trova con un gruppo di schiavi fuggiti che si presenta da Spartaco.

Oggi se ne sorriderebbe, ma all’epoca quel film non ha avuto vita facile: bollato come “socialmente pericoloso”, è oggetto di una violenta campagna di boicottaggio; fallisce solo perché l’allora presidente John F. Kennedy lo va a vedere, e dichiara che il film gli è piaciuto molto.

Quel giorno da Barnes & Nobles, Douglas parla di tante cose; e parla ovviamente anche di “Spartacus”, i rapporti non facili con Kubrick, le difficoltà incontrate durante la lavorazione, e anche dopo: a pellicola terminata: “Era un’America terrorizzata dal comunismo. Al minimo sospetto ci si poteva giocare la carriera; si poteva anche finire in carcere”. Molti in effetti, come Elia Kazan, preferiscono fare i delatori, le spie, denunciare compagni di lavoro; insomma, è la “caccia alle streghe”.

Di questa caccia ne è vittima, tra gli altri Trumbo, che non può firmare  “Vacanze romane”, di William Wyler con Audrey Hepburn e Gregory Peck; alla produzione la sceneggiatura viene “presentata” da Ian McLellan Hunter e John Dighton; bisogna attendere il 2011 prima che si “riconosca” la vera paternità di Trumbo. Douglas con il “semplice” gesto di inserire il nome di Trumbo, di fatto come se gridasse “I’m Spartacus”, e dà il segnale per la fine dell’assurdo maccartismo che stava avvolgendo il paese.

Il film, all’epoca, costa una bazzecola come una dozzina di milioni di dollari. Un investimento colossale per un unico film, una mega-produzione; e ci voleva un bel fegato per rischiare tanto denaro, con la prospettiva di un fiasco per un possibile  boicottaggio: perché non solo Trumbo è in odore di comunismo, lo stesso autore del libro, Fast, è nella “black list”.

Kirk Douglas in realtà non si chiama così. Il suo vero nome è Issur Danielovitch Demsky. Decisamente complicato. Nasce ad Amsterdam, nello stato di New York. I suoi genitori sono immigrati ebrei bielorussi. Alle spalle, Kirk, ha tanto teatro a Broadway; si fa chiamare, inizialmente, Isadore Demsky. Anche quel nome però non funziona. Adotta così quello che tutto il mondo conosce: Kirk, dal personaggio di un suo fumetto preferito; e Douglas, dal cognome di una sua insegnante di dizione. Il primo film è “Lo strano amore di Marta Ivers”, del 1946, diretto da un vecchio lupo della Hollywood dell’epoca, Lewis Milestone. Non va molto bene. “Sfonda” nel 1949, con “Il grande campione” di Mark Robson, ma soprattutto con “L’asso nella manica” di Wilder, e il memorabile ruolo di Chuck Tatum, giornalista senza scrupoli che specula sul dramma di un minatore intrappolato in miniera.

Ricorda quando giunto a Los Angeles appena trentenne, dopo aver prestato il servizio militare in Marina, e si rifiuta di denunciare colleghi ed amici alla commissione per le attività anti-americane. Ricorda le difficoltà incontrate per realizzare “Spartacus”: “Ben cinque anni prima di portare a termine il progetto”; la radicale divergenza di opinioni con Kazan non gli impedisce di ricordare con affetto quello che definisce uno dei suoi film più cari: “Il compromesso”, del 1969, con Faye Dunaway e Deborah Kerr, tratto da “The Arrangement”, un romanzo dello stesso Kazan: “C’era un uomo in quel romanzo, ho cercato di riportarlo in tutta la sua complessità, nei suoi sogni ed errori, nel suo percorso sentimentale e intellettuale. C’era l’America con i suoi sogni e i suoi incubi. Io credo a un’America democratica, forte, coraggiosa”.

Un’ottantina di film, un po’ di TV, una dozzina di libri, tre nomination all’Oscar e un Oscar alla carriera; tre Golden Globe, la “Presidential Medal of Freedom del 1981.

Una invidiabile, straordinaria longevità: “Sono stato così fortunato da aver incontrato la mia anima gemella 63 anni fa”, scrive sulla rivista “Closer Weekly”, parlando della seconda moglie Anne, 97enne. Per festeggiarlo il figlio Michael e la moglie Catherina Zeta-Jones hanno organizzato un party da 200 invitati nella loro villa. “Ci sarà un evento a sorpresa per me ma il mio unico lavoro è riposarmi e godermelo”, dice. Quanto ai regali, li fa lui stesso da decenni nel giorno del suo compleanno: “Dare in beneficenza è un atto egoistico perché mi fa stare bene”.

Happy Birthday, Mister Spartacus.

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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