Io amo Patti Smith. Le sue canzoni hanno illuminato i miei 14 anni come poche altre. Per me chi non capisce l’intensità abrasiva dei suoi primi due album, Horses e Radio Etiophia, non capisce nulla di musica (rock).
Patti Smith è Bob Dylan più Lou Reed più Arthur Rimbaud più Allen Ginsberg. Così, senza pudore. Senza la paura di esporsi ad imbarazzanti paragoni. Solo chi non teme di sembrare ridicolo diventa davvero “grande”. E lei grande lo è stata, anzi, lo è.
Questo nuovo libro, M Train, uscito in America nel 2015 e appena tradotto in Italia da Tiziana Lo Porto per Bompiani, conduce però il lettore verso una dimensione più intima, a volte addirittura crepuscolare, della rockstar. Seguito del fortunato Just Kids, che raccontava gli anni della giovinezza e l’amicizia con il fotografo Robert Mapplethorpe, M Train, dove la “m” sta per memoria, prende forma in un caffè del Greenwich Village, ‘Ino. E’ lì che l’artista fa colazione ogni mattina, con caffè nero, pane integrale tostato e olio d’oliva. Ed è lì, al solito tavolino d’angolo (quando non è occupato) che scrive, oppure ricorda, in un andare da una stazione all’altra, senza necessariamente seguire un filo, un plot. Memore della lezione dei beat, Smith mescola tempi e sogni, realtà e sua trasfigurazione, monologhi interiori e dialoghi con persone reali, o anche con cose inanimate, che le parlano, che rispondono. Spesso con esiti surreali. Prendiamo questo scambio di battute con il busto di Nikola Tesla, “santo patrono della corrente alternata”, posto accanto alla cattedrale serbortodossa di san Sava, sulla 25th (andata recentemente a fuoco):
“Tutte le correnti portano a lei, signor Tesla”.
“Hvala! Come posso esserti utile?”.
“Oh, ho solo qualche problema con la scrittura. Passo continuamente dall’apatia all’agitazione”.
“Che peccato. Forse dovresti entrare e accendere una candela a san Sava. Calma il mare per le navi”.
“Sì, magari. Mi sento sbalestrata: non so bene cos’ho che non va”.
“Hai messo da parte la gioia”, ha risposto senza esitazione. “Senza gioia siamo morti”. “Come faccio a ritrovarla?”.
“Trova coloro che la possiedono e immergiti nella loro perfezione”.
La Patti Smith che esce da questo libro è così. Una creatura dall’indole meditativa ed insieme visionaria, immersa nel suo mondo come in un acquario. E sempre in viaggio, da Berlino all’Islanda, da Londra al Giappone, da Mexico City al Marocco.
Non è facile scrivere del nulla” sentenzia lo sprezzante mandriano che popola i suoi paesaggi onirici notturni. Eppure non è certo il nulla ciò che si racconta. Certo, non ci sono il CBGB, gli studi di registrazione, la band, la scena punk della seconda metà degli anni ’70, in cui Patti Smith è sbocciata. Né i megaconcerti italiani della memorabile estate del 1979, che la lasciarono attonita, lei abituata ai club underground, e diventata all’improvviso per centinaia di migliaia di ragazzi la paladina della rinascita del rock nel nostro Paese (dopo i disordini occorsi a Santana e ad altri artisti, con tanto di molotov e cariche della polizia, disordini che avevano portato i principali promoter a tagliare fuori il Belpaese dal circuito della musica live).
In questo libro c’è invece molta New York, molto inverno, molte riflessioni dalla scala antincendio. Ma anche molti pellegrinaggi e molti debiti pagati nei confronti di artisti che in qualche modo l’hanno influenzata.
La prima stazione ci porta nella Guyana francese, dove aveva sede il famoso penitenziario raccontato in Papillon, il romanzo autobiografico di Henry Carriere, poi diventato un celebre film con Steve McQueen e Dustin Hoffman. Patti Smith chiede al suo futuro marito, Fred Sonic Smith, chitarrista dei leggendari MC5 di Detroit, il Frederick dell’hit contenuto nel suo quarto album, Wave, di accompagnarla. Lo scopo è raccogliere in ciò che resta del bagno penale, nel frattempo chiuso, alcuni sassi da regalare a Jean Genet, il drammaturgo francese che aveva aspirato ad essere imprigionato fra quelle mura, considerate fra le più letali al mondo. Non è il viaggio di due rockstar, è il viaggio di due americani romantici che in quel remoto angolo dell’America latina nessuno conosce. Niente di ciò che accade è determinante; ma non per questo è il nulla (in quanto ai sassi, non riuscirà a consegnarli a Genet prima della sua morte).
Il libro prosegue su questa falsariga. Da un lato il caffè ‘Ino, e il progetto di comprare a sua volta un piccolo bar, per una clientela di viaggiatori e artisti. Un progetto poi abbandonato per trasferirsi a Detroit, dal marito, scelta che la porterà ad allontanarsi dalle scene per dieci anni, all’epoca descritti da certa stampa come una “reclusione” mentre lei li ricorda come molto felici, fra i viaggi, i due figli, la scrittura, la pesca sul lago Michigan. A questa dimensione privata appartengono anche il suo appartamento a Manhattan, dove trascorre il capodanno da sola, con i gatti e gli amati polizieschi in TV, i pranzi frugali con zuppe di fagioli, le sortite ad un cinema vicino al Chelsea hotel, gli oggetti con cui parlare, la figura del padre, rievocata con affetto e rispetto.
Dall’altro i punti di riferimento artistici, in ogni parte del mondo. Frida Khalo e Roberto Bolaño, Virginia Woolf e Murakami Haruki, Bulgakov e Achmatova e così via. Spesso evocati attraverso luoghi o cose che sono ad essi appartenute, che Smith visita, tocca, raccoglie. Una tomba, un bastone da viaggio, un letto, una sedia.
C’è qualcosa di commovente in questo darsi all’arte. Senza spocchia e tuttavia in modo così totale. C’è, forse, tutta la fede di un’americana di provincia (anche se parliamo della provincia di New York City), di origini modeste, che fin da ragazzina aveva intuito come l’unica via di fuga possibile passasse attraverso la musica, i libri, la fotografia, il cinema, in definitiva la società dello spettacolo, ma non quella criticata da Guy Debord, piuttosto quella delle avanguardie. Il tutto con uno spirito che non ha cessato mai di essere ad un tempo beat e punk, cioè critico, anticonformista, votato alla provocazione e destinato alle minoranze, anche quando sembrava diventare mainstream.
Qui però, rispetto ad opere precedenti – o anche a tante interviste del passato “ruggente” – c’è più profondità, più autorevolezza (“ho raggiunto un’età che ispira autorevolezza” osserva a volte acutamente parlando con i giornalisti). La giovane innamorata di Pasolini, San Francesco e papa Albino Luciani, ha lasciato il posto ad una donna che ha tanto letto e tanto vissuto. Di solida cultura, potremmo dire, anche se grazie a dio non stiamo parlando di accademia. Assai meno superficiale di quella che spesso i giornali ci hanno restituito, con ritratti ad effetto o conversazioni frettolose strappatele nella pause dei tour.
In queste pagine non c’è provocazione o scandalo, nella comune accezione dei termini. Non c’è sesso, droga & rock ‘n’ roll. C’è invece ad esempio un discorso pronunciato alla convention di un misterioso club di estimatori di Alfred Wegener, esploratore e pioniere degli studi sulla deriva dei continenti. Una cantata notturna in compagnia del grande campione di scacchi Bobby Fisher a Reykiavik. Un mesto soggiorno a Tangeri assieme a Lenny Kaye, suo chitarrista fin dagli esordi e grande amico, alla ricerca degli spiriti degli scrittori che hanno eletto quel porto di mare a loro dimora.
Arrivati a Rockaway beach, nel Queens, la spiaggia della canzone dei Ramones dove aveva comprato una casa subito prima dell’uragano Sandy, Patti Smith ci fa sentire l’oceano e il vento fra le macerie. Persino quando parla di animali domestici e schiamazzi oltre la finestra, giù in strada, dove passano ragazze scalze instupidite dall’alcol nella gelida notte newyorchese, riesce ad essere affascinante.
Questo libro sta agli antipodi rispetto a, poniamo, l’autobiografia di Keith Richards (che pure è molto gustosa). Leggetelo in una giornata di settembre, fresca e velata. Mettetelo fra il Dottor Sax di Kerouac, i gatti di William Burroughs, i viaggiatori di Paul Bowles, le poesie di Sylvia Plath. Leggetelo con un sottofondo di Coltrane o del John Cale più intimista (quello stesso Cale che produsse il suo album d’esordio nel lontano 1975). Bevendo un caffè. Lasciando scorrere il tempo senza curarvene, se mai fosse possibile.
Poi andate fuori a scattare qualche foto. Ce ne sono anche in queste pagine, perlopiù polaroid di oggetti, oppure di luoghi. Rari i ritratti. L’unico potere di cui possiamo disporre è quello dell’immaginazione.
Patti Smith, M Train, Bompiani, 2016 (traduzione di Tiziana Lo Porto)