Tutti avevano pronto il solito coccodrillo. Erano 92 gli anni ed era giusto che i professionisti delle news se lo aspettassero.
La mia è la testimonianza della sorpresa e dell’amore. Per me lui, Giorgio Albertazzi, era eterno. Lui era ed è nella sua statuaria immensità da quando ragazzo ero incantato da quella sigla misteriosa “Compagnia Proclemer-Albertazzi”, ove l’accento cadeva, forse per istinto maschile su quel nome strano Proclemer e sul quel volto di una espressività unica che affascinava per sé solo. (Lo aveva preceduto a 89 anni. Confessava lui: «Voleva che l’aiutassi a morire»).
Anche perché in quegli anni e dopo le prove maestose nel teatro televisivo era lei la diva di teatro. La popolarità e la gloria del compagno per me e per tanti come me sarebbe venuta dopo con i meritori sceneggiati televisivi, sconvolgente, ancora oggi, quell’Idiota immenso, quello scavo di grande attore sulla scansione in profondità dell’animo umano operata da Fëdor Dostoevskij. Era la consacrazione dopo Delitto e castigo e Gli Spettri del 1954 (i tempi di Bianca Toccafondi), ma anche Piccolo mondo antico del 1957, per finire al doppio Jekyll del 1969 e il Philo Vance del 1974. E le continue interpretazioni radiofoniche, le decine di album e singoli per dar voce a Dante e Leopardi, a Neruda e Pasternak.
Poi per il più recente abbraccio fu complice quello scenario di Siracusa, in una serata mistica. Il sole che all’inizio picchiava sul lato destro della testa, davanti il sipario verde di alberi antichi, di esili cipressi, lo sfondo lontano fra mare e cielo. E lo sfrecciare e i trilli delle rondini. Perché sono immancabili ogni anno sul cielo del teatro, sanno che comincia il rito, che la vita ritorna fra quelle rocce bianche scavate e plasmate a cominciare dall’antico siceliota Archia di Corinto. E volano con le loro code a ventaglio, le ali spiegate, fra i cipressi del nostro ritorno. Perché anche noi torniamo attratti da quella malia che ha accolto secoli di officianti, da quando Eschilo venne da Atene, forse adirato e scontento dei suoi concittadini, e si offrì al tiranno illuminato, primo mecenate in assoluto, in una corte che conosceva solo uomini di arte e di poesia e di teatro. E il Maratonomaco offrì a Ierone la riedizione dei suoi patriottici Persiani in onore del tiranno che aveva da celebrare a Terme un’altra Salamina. E per lui l’iniziato ai misteri eleusini scrisse una misteriosa Aitna, dea indigena che evocava misteri siculi e iniziazioni in un tempio ad Adrano frequentato da tutti gli indigeni.
Lì, seduto sulla roccia del Colle Temenite, ove Eschilo aveva ascoltato anche le maschere del suo Prometeo portatore di fuoco, io, uomo della plastica e delle pagine elettroniche, a 71 anni avevo assistito in quel maggio odoroso del 2009, più di duemila e cinquecento anni dopo, ad un rito sconvolgente. Un vecchio, ultraottenne, era venuto con gli occhi bendati, accompagnato dalla figlia, quella amorosa, eroica Antigone, un cieco si era presentato sulla scena. A primo acchito nell’incanto del prologo sofocleo. E io avevo sentito quel vecchio che diceva nella raggiunta serenità dell’anima:
«Figlia del vecchio cieco, a quale terra,/ Antigone, siam giunti, a qual città,/ di quali genti? All’errabondo Edipo, / di poverelli doni in questo giorno / offerta chi farà? Poco ei dimanda,/ e meno ancor del poco ottiene: eppure / tanto mi basta: ché gli affanni e gli anni / lunghi, e la generosa indole, terza, / maestri a me, ch’io m’appagassi, furono».
Era lui, sotto un sole di maggio che abbagliava e bruciava, Edipo perfetto che ne viveva consapevolmente e interiormente il dramma, prima di avviarsi anche lui verso l’atteso bosco di Colono. Era stato in quella magia del lieve trascolorare della sera che il vecchio Edipo-Albertazzi pregava per le figlie:
«Or questo voto io fo per voi. / Dovunque conduciate la vita, oh, miglior sorte / a voi che al vostro genitore» e supplicava Creonte di non strappargliele. Poi svaniva nel bosco, mentre il Coro ammoniva: «Or, mirando questo giorno luttuoso, non far stima / che beato sia veruno degli effimeri, se prima / scevro d’ogni orrido male / non sia giunto al dí fatale». Già qualche colomba attardata nel pallore della luna tagliava la scena, il triste gufo intonava il suo chiù fra il verde fondale.
Poi dopo quella tenera elegia della vecchiaia che mi era apparsa pur nel suo vigore un tragico paradigma dell’addio, una sera di fine febbraio di un anno fa, in un teatro che a Palermo si ritiene popolare e leggero nonostante l’altisonante nome topografico, Al Massimo, lo rividi, statuario e solenne nella sua lussuriosa vecchiezza, straordinario, estroso, nella persona dell’eterno ebreo, a cominciare da quel lancinante monologo che sempre mi turba:
«E ciò perché? Perché sono giudeo. / Non ha occhi un giudeo? / Un giudeo non ha mani, organi, membra, / sensi, affetti, passioni, / non s’alimenta dello stesso cibo, / non si ferisce con le stesse armi, / non è soggetto agli stessi malanni, / curato con le stesse medicine, / estate e inverno non son caldi e freddi /per un giudeo come per un cristiano?» (atto III, scena I).
Tutto per quei tre scrigni lasciati dal padre all’ereditiera Porzia e l’idea degli indovinelli che rimandano certo alla celeberrima Turandot di Gozzi e Puccini, ma alludono anche a quel clou tragico di tutti i paradigmi di nodi tragici, a quell’Edipo e la Sfinge.
Nella serata di tutto esaurito del teatro Al Massimo capivo che era quello l’ultimo magico dono che ricevevo dal mattatore, il plasmatore di tanti personaggi. Lui era là in quello scorrevole semplice colloquio, l’ordito di questioni troppo grandi per noi miseri mortali, egli, con il suo incedere incerto, nel corpo dell’ebreo, vittima crudele, perché risentita, stava frugando negli abissi del nostro cuore, ci stava offrendo l’ultima sua profonda lettura dell’uomo.
Per lui il sipario non è ancora calato, perché vivrà sempre in tutti coloro che lo hanno visto vivere le vite di tanti eroi magnanimi e di uomini perduti. Nonostante ogni umana sua debolezza e caduta.