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May 5, 2016
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Antimafia: sbriciolate pure Pino Maniaci, ma la storia resta

Il giornalista di Telejato sarà pure indifendibile, ma i peccati della magistratura da lui rivelati non spariscono

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
pino maniaci
Time: 6 mins read

Scrive Emil Cioran: “Tragicommedia del discepolo: ho ridotto il mio pensiero in polvere, per battere i moralisti che mi avevano insegnato soltanto a sbriciolarlo…”. Eh sì, tutto quello che resta dell’antimafia si sbriciola in queste ore in Sicilia: si sbriciola il mito di Pino Maniaci, il direttore di Tele Jato finito sotto inchiesta da parte della Procura della Repubblica di Palermo: ma si sbriciola, anche, a partire dalla Sicilia, una certa idea della Giustizia vista come ultima sponda in un’Italia che sta affondando.

Cominciamo dalla fine di una storia che inizia negli anni ’80 del secolo passato. E iniziando dalla fine non possiamo negare che le intercettazioni che in queste ore imperversano sulla rete parlano chiaro: Pino Maniaci si era montato la testa. Nei dialoghi con una donna, subito definita la sua “amante” (ma che bisogno c’era di rendere di dominio pubblico fatti eventualmente personali?), il direttore di Tele Jato straparla. Si vanta di qua, si vanta di là. Va da sé che siamo davanti a un personaggio che non riesce a controllare la notorietà, anche internazionale, che gli è piovuta addosso.

Anche i video che lo ritraggono con amministratori comunali che gli consegnano 50-100 Euro non sono scene edificanti. Tutt’altro. Ma a questo punto ci dobbiamo fermare per alcune considerazioni e per qualche domanda.

La prima considerazione è che Pino Maniaci non è smaliziato. Ha dimostrato di essere un giornalista che ha fiuto, se è vero che è riuscito a mettere a soqquadro la Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, facendo saltare imbrogli e affari trentennali legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia (sequestrati e non confiscati: perché le ‘operazioni’ più discutibili ‘pilotate’ da alcuni magistrati, da alcuni avvocati e da alcuni commercialisti riguardavano i beni sequestrati a mafiosi, ma anche a persone che con la mafia c’entravano poco o nulla).

La seconda considerazione è che il direttore di Telejato, stando a quanto è emerso dall’inchiesta – e stando ai video diffusi sulla rete – non è molto difendibile. Discutere di soldi con persone che erano state e che magari sarebbero state in futuro oggetto dei servizi della tv che dirigeva non è il massimo. Anzi.

A questo punto, però – e qui arriviamo alle domande – bisogna chiedersi: in assenza di un rinvio a giudizio come mai i video che ritraggono Pino Maniaci sono già finiti sulla rete? Tutto questo è normale? O forse c’era l’esigenza di sputtanare a dovere il direttore di Telejato perché, con i suoi modi di fare un po’ sopra le righe, ha creato un gran casino a un preciso segmento della magistratura di Palermo?

Qui va fatta subito una distinzione per fugare eventuali equivoci. La magistratura italiana è sana. La magistratura di Palermo, nel suo complesso, è sana. Ma all’interno della magistratura – non solo a Palermo – esistono ‘mondi’ strani. Una di queste ‘stranezze’ è rappresentata dalla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Non è la sola particolarità. Le Sezioni fallimentari dei Tribunali italiani sono piene di ombre. Chi scrive, nella seconda metà degli anni ’90 del secolo passato, dopo aver puntato i riflettori su una curatela fallimentare – Tribunale di Palermo – ha visto le stelle. Un altro segmento della Giustizia italiana dove non abbondano certo le luci sono le Esecuzioni immobiliari.

Insomma, tre ‘mondi’ – gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia, Sezioni fallimentari ed Esecuzioni immobiliari – che sono, come dire?, ricchi di ombre. Maniaci e Telejato – di questo bisogna dargliene atto – hanno puntato i riflettori su una parte di uno questi tre ‘mondi’: i beni sequestrati ai mafiosi a Palermo e provincia. Ed è andato in scena il patatrac. Perché Pino Maniaci e Tele Jato non si sono fermati.

Attenzione: i nomi dei protagonisti di questo angolo oscuro della Giustizia di Palermo, per grandi linee, erano noti già dalla fine degli anni ’80 del secolo passato. Ma nessuno, prima di Pino Maniaci e di Telejato, aveva puntato dritto sulla gestione di questi beni: né il giornalismo, né la magistratura. E, in fondo, è ancora così: oggi, infatti, sappiamo solo alcune delle cose avvenute a Palermo: ma che sappiamo dei beni sequestrati alla mafia nelle altre città siciliane? Che sappiamo della gestione dei beni sequestrati alla Camorra campana, alla Sacra Corona Unita pugliese e alla ‘Ndrangheta calabrese?

Già Leonardo Sciascia, nei primi anni ’70 del secolo passato, con la sua straordinaria intuizione (quante cose italiane Sciascia ha intuito con decenni di anticipo!), raccontava di una mafia che si stata trasferendo nel Nord Italia. Non era una novità, perché la mafia, già ai tempi di Michele Sindona, aveva sì teste in Sicilia, ma anche copiose ‘tasche’ a Milano. Che vogliamo dire? Che anche nel Centro Nord Italia ci sono stati e ci sono sequestri e confische di beni mafiosi. Siamo sicuri di essere stati informati sulla gestione di questi beni?

Maniaci e Telejato sono andati dritti sulla Sezione per le misura di prevenzione del Tribunale di Palermo. E l’hanno fatto dopo che la commissione nazionale Antimafia, presieduta da Rosy Bindi, giunta a Palermo, era andata ad ‘ossequiare’ l’allora potentissima presidente di questa Sezione, la dottoressa Silvana Saguto, e gli altri magistrati di tale Sezione.

Il pentolone che Maniaci e Telejato hanno scoperchiato è mostruoso. Incarichi assegnati agli stessi studi legali, commistioni improprie tra magistrati, commercialisti e gli stessi avvocati. L’inchiesta su questa vicenda, da parte della Procura della Repubblica di Caltanissetta, è in corso. Non ci sono stati arresti. Solo la sospensione dell’ormai ex presidente della Sezione e il trasferimento di altri magistrati. Per il resto, si sa poco. Non ci sono state conferenze stampa di magistrati. Non si sa nemmeno se tutti gli incarichi affidati dalla vecchia gestione siano stati revocati. Su questa vicenda è calato il silenzio.

Ma il silenzio non può fare venire meno una considerazione: quanti danni economici ha arrecato, a Palermo e provincia, la gestione delle Sezione per le misure di prevenzione dalla fine degli anni ’80 del secolo passato fino a pochi mesi fa? Quante aziende hanno chiuso i battenti per alimentare i parassiti ‘omaggiati’ da questo segmento della magistratura di Palermo? Quanti posti di lavoro sono andati perduti? Di quanta disperazione sociale è responsabile una stagione che è durata quasi un trentennio?

Sono domande legittime. Chissà come mai non è mai stato fatto uno studio accurato. Forse in Sicilia mancano le università? Non si direbbe, visto che se ne contano quattro, più altri due o tre Consorzi universitari.

Oggi assistiamo al tiro al bersaglio a Pino Maniaci. Che, lo ribadiamo, non è molto difendibile. C’è chi dice che è ignorante: che ha un passato di imprenditore burrascoso: che è stato un ‘tappiatore’ (in siciliano, ‘tappiare’ significa non pagare i debiti) e via denigrando. In questo gioco al massacro – soprattutto se il soggetto da massacrare è stato più bravo e più coraggioso di tutti gli altri – i siciliani sono quasi imbattibili. Il lavaggio della propria coscienza con il ‘detersivo’ delle malignità e dell’invidia finalmente ‘vendicate’ è un rito al quale la mediocrità di una Sicilia gestita da ladri e da ‘colletti bianchi’ non si sottrae.

In fondo, il migliore modo per assolversi è scaricare le proprie frustrazioni su chi è caduto in disgrazia, anche per le proprie insufficienze. Ma i tanti errori – in alcuni casi gravi – commessi da Pino Maniaci non solo non fanno venire meno i suoi meriti, ma non possono cambiare il passato, che per definizione non si cambia. In fondo il passato è l’unica cosa che la borghesia mafiosa di Palermo non è mai riuscita a cambiare.

Chi ha memoria ricorda i mafiosi amici di Crispi che hanno fatto ammazzare Emanuele Notarbartolo. O gli ‘ascari’ che ai tempi di Giolitti vendevano Sicilia e siciliani agli interessi romani. O gli alti gerarchi fascisti collusi con la mafia e salvati da Mussolini in persona, che impedì al ‘Prefetto di ferro’, Cesare Mori, di arrestarli. O i mafiosi – ancora loro – che alla fine degli anni ’40 si sbarazzavano dei separatisti per trovare posto nei partiti di quello che allora si chiamava “Arco costituzionale”, dal centro alla sinistra (la destra era allora snobbata dalla mafia: cosa alla quale i mafiosi rimedieranno nel 1994, recuperando a tappe forzate il tempo perduto).

Il passato non si cambia. E i danni prodotti – e documentati da Tele Jato – dalla Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo (cioè da un ‘pezzo’ dello Stato: che piaccia o no è così) rimangono agli atti. A perenne testimonianza di chi ha avuto paura (“Che fai? Ti metti contro la Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo? Ma sei pazzo? Ma chi te lo fa fare? Guarda che quelli si vendicano. Ti fanno nuovo. Hai idea di chi sono?”) e che solo oggi riacquista il coraggio per affondare la lama su Pino Maniaci.

Colpire i disgraziati e farsi belli con i potenti: anche questa è Palermo: anche questa è la Sicilia. Colpire mentre non soltanto l’antimafia – che ormai è una barzelletta oscena – ma tutta la Sicilia si sbriciola è facile. Entropia sociale, economica e anche entropia de “L’intelligenza degli avvenimenti”, per dirla con il pessimismo di Aldo Moro.

In fondo, la mattina in cui a Palermo, con il piroscafo, tornava Raffaele Palizzolo, invischiato fino al collo nel delitto Nortarbartolo, ma tutto sommato salvato dalla Giustizia, ad attenderlo sulla banchina del porto c’era una grande folla: e tra la folla c’era anche Giuseppe Pitrè, l’intellettuale siciliano per antonomasia di quegli anni, che il filosofo Giovanni Gentile immortalerà ne “Il tramonto della cultura siciliana”…         

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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