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June 26, 2022
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Per Junot Díaz NY è una città in fiamme sospesa tra il cielo nero e il fiume

Il Premio Pulitzer che ha trovato una nuova lingua per raccontare l’immigrazione e che è stato coinvolto nello scandalo del MeToo

Michele CrescenzobyMichele Crescenzo
Per Junot Díaz NY è una città in fiamme sospesa tra il cielo nero e il fiume

Junot Diaz (illustrazione Pia Taccone)

Time: 8 mins read

Oggi. Tardo pomeriggio. Junot Díaz sale sul D Train. La carrozza è quasi vuota. Lui sceglie un posto accanto al finestrino, in seconda fila. “Certe notti, quando sono inquieto prendo il D sul ponte di Manhattan.” – scrive in Nueva York – “Quando il treno esce dalla galleria e comincia ad attraversare l’East River, mi metto tra i vagoni. Questo, per qualche motivo, mi rende felice. Non è pericoloso e la vista che offre su New York è indescrivibile. Una città in fiamme, sospesa tra il cielo nero e il fiume. Il mio vecchio volle che la vedessimo durante il viaggio dal JFK. Ricordo il nostro silenzio, il freddo dei finestrini contro i nostri volti. La città sembrava fantascientifica. Come un’incubatrice di stelle, dove nascono i soli.”

Il treno parte con un fischio. Junot Díaz osserva il proprio riflesso sul vetro buio, i contorni confusi del suo viso. Da quando è stato coinvolto nello scandalo del metoo non riesce più a riconoscersi. Chi è lui? L’immigrato di San Domenico che si è salvato grazie alla letteratura? Lo straordinario autore del best seller La breve vita meravigliosa di Oscar Wao? L’attivista politico in difesa degli ultimi? Oppure un insegnante misogino che ha provato a baciare una studentessa? È un autore geniale o uno che l’ha fatta franca?

Scuote la testa. Ha bisogno di ricominciare tutto d’accapo. Partendo dall’inizio, quindi da New York, la città dove il padre arrivò all’inizio degli anni Settanta. A quei tempi lui trascorreva la sua infanzia a Santo Domingo con la madre, i nonni e i quattro fratelli. Nel dicembre del 1974, però, il padre decise di portare la sua famiglia in America ma non a New York (troppo violenta) bensì nel New Jersey, dove non conosceva nessuno.

Junot Díaz socchiude gli occhi. Ricorda lo shock. Lo stupore. La paura. E ricorda bene anche come ha fatto a superare quel periodo: leggendo. Era sempre con la testa in qualche libro fantascientifico o apocalittico. «L’unico modo di descrivere il passaggio da un villaggio rurale di Santo Domingo in cui vivevo senza bagno ed elettricità alla vita statunitense è attraverso le lenti della fantascienza” raccontò a Marina Lewis in Web del Sol “Non solo con il viaggio nello spazio – viaggiare tra due pianeti  – ma il viaggio nel tempo! Balzare tra un’intera esistenza e un’altra, tra due momenti temporali, ecco è come ci si sente nell’essere una persona di colore che dal terzo mondo viaggia verso il primo.»

Junot Díaz at the Mercantile Library Center for Fiction’s Annual Benefit and Awards Dinner (Christopherpeterson, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)

Junot Díaz smette di osservare lo sfondo nero, si piega in avanti, stringe i palmi sulle ginocchia e comincia ad accarezzarsele nervosamente. Quando aveva otto anni è successo qualcosa di ancora più destabilizzante che arrivare in America: è stato vittima di un abuso che soltanto nel 2018 ha avuto il coraggio di confessare. “Non solo lo stupro ma quel che venne dopo: l’agonia, l’amarezza, l’auto-recriminazione, lo asco, il disperato bisogno di nascondere e tacere” ha scritto in The silence the legacy of childhood trauma “Ha fottuto la mia infanzia. Ha fottuto la mia adolescenza. Mi ha fottuto la vita intera. Più che l’essere dominicano, più che l’essere immigrato, più ancora che l’essere di discendenza africana, è il mio stupro a definirmi. Ho speso più energia nel fuggirlo che a vivere”

Il treno esce dalla galleria e sale su Manhattan Bridge. Junot Díaz si volta di colpo e rimane affascinato dalle luci intense della città. New York appare davvero come una città in fiamme sospesa tra il cielo nero e il fiume. Proprio come gli è apparsa a ventisei anni quando ci è andato a vivere. “Quando vivevo a New York facevo lavori temporanei, vivevo in un appartamento di Brooklyn non sverniciato, ero troppo al verde per qualsiasi cosa, tranne che per l’attivismo” Ricorda in Nueva York: “Spesso mi ritrovavo a Washington Heights, la capitale della diaspora dominicana, a visitare amici e parenti; a volte stavo agli angoli delle strade con il mio taccuino da scrittore, cercando di immaginare quello che avrebbe potuto essere.”

Il treno si allontana dalla città, come fece anche lui. Dopo aver conseguito la laurea infatti lavorò presso la Rutgers University Press come assistente editoriale. Successivamente, entrò a far parte del programma di scrittura creativa della Cornell University nel 1993, grazie a una storia breve in cui viene introdotto per la prima volta Yunior, il narratore e alter ego di gran parte dei suoi racconti. Junot Díaz sorride. Fu una vera sorpresa perché fu la sua fidanzata del tempo a mandare la domanda di iscrizione, non lui.

Nel 1995 conseguì il MFA presso la Cornell University, dove scrisse gran parte del suo primo libro di racconti, Drown (A picco, trad. di Tilde Riva, Bompiani,) pubblicato nel 1996 che racconta le difficoltà degli immigrati dominicani. La scrittura unisce termini ed espressioni di origine afroamericana e latino-americana, in cui inglese e spagnolo formano una lingua mista che crea un potente effetto sul lettore. Il libro ebbe un clamoroso successo da parte della critica, ma uno scarso di pubblico. Junot Díaz però era felicissimo, per un autore dominicano di vent’otto anni fu comunque considerato un esordio molto promettente.

Il treno entra in un tunnel, lui si allontana dal finestrino, mette le mani dietro la nuca e ripensa a quando, nel 2007 venne pubblicato The Brief Wondrous Life of Oscar Wao (La breve favolosa vita di Oscar Wao, trad. di Silvia Pareschi, Mondadori) il suo più grande successo. Il libro racconta la vita di Oscar de León, un ragazzo dominicano sovrappeso che cresce a Paterson, nel New Jersey, ossessionato dai romanzi di fantascienza e da una maledizione che affligge la sua famiglia da generazioni. Narrato da più personaggi, il romanzo incorpora una quantità significativa di Spanglish e neologismi, oltre a riferimenti a libri e film fantasy e di fantascienza come la saga de Il Signore degli Anelli, ad opere fumettistiche come I Fantastici Quattro e Watchmen e Star Wars.

Il romanzo ha ricevuto recensioni molto positive da parte della critica, che ha lodato lo stile di scrittura e la storia multigenerazionale. La feroce critica del New York Times Michiko Kakutani, (già conosciuta in questa rubrica per l’articolo su Francesca Marciano) descrive il romanzo di Díaz come “un mix di Spanglish che anche un lettore monolingue può facilmente comprendere, pieno di note in stile David Foster Wallace, e individua i due temi centrali del romanzo: la Repubblica Dominicana, madrepatria infestata di fantasmi, e l’America, la terra della libertà ma non delle così splendide possibilità, verso la quale i protagonisti fuggono, come parte della grande diaspora dominicana.”

La breve vita meravigliosa di Oscar Wao vinse numerosi premi nel 2008, come il National Book Critics Circle Award e il Premio Pulitzer per la narrativa. Un sondaggio di critici statunitensi promosso da BBC Culture nel 2015 lo nominò come il miglior romanzo del XXI secolo, individuando il suo merito nell’aver messo in discussione il concetto di ciò che significa essere americano.

Un treno che viaggia in direzione opposta fa vibrare il vetro del finestrino e il buio del tunnel è temporaneamente interrotto da brevi rettangoli di luce. Junot Díaz sobbalza e si guarda intorno. Diversi passeggeri dormono, altri stanno con gli occhi fissi sul cellulare. Si mette le mani dietro alla nuca e pensa agli altri suoi due libri: uno di racconti e un altro per bambini.

Nel settembre del 2012, venne pubblicato This is how you lose her (È così che la perdi. trad. di Silvia Pareschi, Mondadori) dove spazia dalla prima alla terza persona singolare, passando anche alla seconda persona singolare. In quasi tutti i racconti viene espressa una dura critica al machismo dominicano, al razzismo e alla supremazia bianca. Dopo sei anni, nel 2018, venne pubblicato il libro per bambini Islandborn insieme all’illustratore Leo Espinosa, dedicato alle sue figliocce, che volevano poter vedere e leggere di ragazze dominicane del Bronx.

Junot Diaz

In questi anni non ha solo scritto, una parte fondamentale del suo tempo e delle sue energie l’ha dedicato all’ attivismo politico: è stato parte attiva in una serie di organizzazioni a New York, dai Pro-Libertad, al Partito Comunista dei Lavoratori Dominicani fino all’Unione dei Giovani Dominicani. Il 22 maggio 2010 il suo nome è stato selezionato per la giuria del Premio Pulitzer: è il primo membro di origini latinoamericane scelto a far parte della commissione del prestigioso premio, un fatto per cui si dichiarerà incredibilmente onorato.

Il treno è arrivato in stazione. Tutti intorno a Junot Díaz vanno via ma lui non si alza dal suo posto. Si volta e torna a guardare il riflesso confuso del suo volto. L’incubo del #metoo è iniziato durante un festival letterario a Sydney, in Australia, quando la scrittrice Zinzi Clemmons lo ha accusato di averla baciata con forza e di averla contattata contro la sua volontà. All’indomani dell’incidente, la scrittrice Alisa Valdes ha raccontato la sua relazione con Díaz in un post sul suo blog, affermando che il suo comportamento era “misogino, avvilente e crudele”. Le autrici Carmen Maria Machado e Monica Byrne hanno fatto eco a sentimenti simili, chiamando in causa Díaz per casi distinti di presunto bullismo verbale. Alisa Rivera ha dichiarato al Boston Globe: “Sfortunatamente, con il #MeToo, lo standard sembra essere: beh, non è così grave come Harvey Weinstein. Penso che dovremmo avere una conversazione più ampia sull’abuso di potere”.

Diaz si passa una mano sulla faccia. In seguito alle accuse si è dimesso da tutti i suoi ruoli accademici. A giugno 2018, un’indagine del Massachusetts Institute of Technology, dove è membro della facoltà, ha esaminato il suo comportamento nei confronti del personale e delle studentesse e ha dichiarato di non aver “trovato o ricevuto informazioni che ci portino a prendere provvedimenti per limitare il Prof. Díaz nel suo ruolo di membro della facoltà del MIT. Ci aspettiamo che insegni il prossimo anno accademico, come previsto”. Ha mantenuto anche il posto nel consiglio del premio Pulitzer e di editor di narrativa alla Boston Review, la cui rivista ha dichiarato di aver condotto una propria indagine e di non aver riscontrato alcun tipo di abuso. La decisione della Boston Review ha spinto tre redattori di poesia a dimettersi per protesta.

Díaz continua a fissare il suo riflesso sbiadito sullo specchio. Chi è lui? L’immigrato di San Domenico che si è salvato grazie alla letteratura? Lo straordinario autore del best seller La breve vita meravigliosa di Oscar Wao? L’attivista politico in difesa degli ultimi? Oppure un insegnante misogino che ha provato a baciare una studentessa? È un autore geniale o uno che l’ha fatta franca? Cosa ne pensano i suoi lettori? E tu che stai leggendo questo articolo, cosa ne pensi?

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Michele Crescenzo

Michele Crescenzo

Michele Crescenzo legge e scrive, appena può. È nato a Napoli nel’77 dove si è laureato in Sociologia. Vive a Milano dal 2002, dove lavora in una multinazionale americana. La sua quotidianità è alternata da numeri e parole. Da lunghissime call conference internazionali alla stesura di articoli letterari. Scrive recensioni per Satisfiction. Gestisce “Ti ho Rivista” tabloid sul mondo delle riviste indipendenti italiane. Organizza eventi culturali alla libreria milanese Gogol&Company. Cura la column “Gotham's Writers” su La Voce di New York. Nel tempo libero scrive: Nel 2009 ha vinto il Premio Chatwin, concorso internazionale sul viaggio. Ha pubblicato racconti per antologie e riviste letterarie (‘tina, Pastrengo, Talking Milano, Lettura la newsletter del corriere della sera).

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