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January 26, 2021
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Il virus venuto dal Brasile: i timori per le varianti covid-19 e le risposte dei vaccini

Non è questo coronavirus ad essere particolarmente pericoloso, o particolarmente intelligente. Tutti i virus possono mutare e preoccuparci, ma senza panico

Sonia TurrinibySonia Turrini
Il virus venuto dal Brasile: i timori per le varianti covid-19 e le risposte dei vaccini

3D model of SARS-CoV-2 created at the MRC Laboratory of Molecular Biology using electron cryo-tomography (cryo-ET) data analysed by John Briggs’ group and collaborators, published in Nature.

Time: 4 mins read

Quasi perfettamente in contemporanea, Italia e USA hanno registrato ieri il primo caso di COVID da variante brasiliana, rispettivamente a Varese ed in Minnesota. Con il diffondersi delle nuove forme del virus, la britannica identificata in oltre 50 paesi e la sudafricana già più di 20, e ora con l’arrivo della brasiliana, il timore dilaga.

Ma come sono nate queste varianti? E quanto dovrebbero preoccuparci? In un video pubblicato alcuni giorni fa dall’OMS, la dottoressa Soumya Swaminathan ha cercato di fare chiarezza in merito.

Le varianti di un virus derivano da errori durante la sua replicazione, sono mutazioni genetiche accidentali. Alcune sono dannose per il nuovo virus replicato, altre possono invece dargli un vantaggio e renderlo più efficace o più aggressivo. Ancora una volta viene quindi ribadita l’importanza di mantenere comportamenti prudenti come indossare mascherine, mantenere le distanze ed evitare le folle: più il virus circola, più possibilità ha di replicarsi, e quindi potenzialmente di “incappare” in mutazioni per lui vantaggiose.

Sfatiamo un primo mito: non è questo virus ad essere particolarmente pericoloso, o particolarmente intelligente. Tutti i virus possono mutare, ed è pratica comune per la scienza tracciarne le mutazioni e se necessario modificare i vaccini. Accade ogni anno per il virus dell’influenza: l’OMS coordina uno sforzo internazionale per studiare il nuovo virus influenzale e preparare vaccini efficaci.

Sono già state registrate migliaia di mutazioni del virus Sars-CoV-2; quelle del virus di variante inglese, sudafricana e brasiliana sono esempi di mutazioni genetiche che rappresentano per il virus una conquista, rendendolo più infettivo.

Quanto dovrebbero preoccuparci queste nuove varianti? Abbastanza, ma senza generare il panico. Tutte e tre le mutazioni che allarmano il mondo hanno subito mutazioni alle proteine spike, quelle proteine che punteggiano l’esterno del virus dandogli l’aspetto a noi ormai tanto familiare. La proteina spike è la struttura che permette al virus di “aggrapparsi” alle cellule umane, e i virus mutati sono avvantaggiati proprio in questo, il chè aumenta la contagiosità. La variante su cui abbiamo più dati, quella inglese, è tra il 30 e il 50% più infettiva del COVID originale.

Nonostante siano circolate notizie che dichiaravano che le nuove forme di coronavirus fossero più letali, non vi sono prove, almeno per ora, che causino una sindrome più grave. Infettando di più, queste varianti hanno maggiore capacità di circolare nella popolazione, e quindi di raggiungere i soggetti fragili che potrebbero avere complicazioni anche severe, ma non è dovuto al fatto che il virus sia di per sé più letale.

I dati mondiali sulla diffusione nel mondo del covd-19 e sui morti provocati forniti dall’OMS al 26 gennaio 2021

Arriviamo alla domanda da un milione di dollari, che tutti si fanno: ma i vaccini che tanto abbiamo aspettato funzioneranno ancora, ora che il virus è mutato? E soprattutto, se questo virus trasformista può cambiare faccia, rischiamo una nuova pandemia ogni stagione perché il nemico cambia un pochino? Per calmare le paure, prendiamo in prestito una metafora molto efficace fatta dal professor Roberto Burioni pochi giorni fa. Supponiamo che il virus sia una macchina: può mutare alcune sue caratteristiche, per esempio il colore, e continuare a funzionare, ma non può cambiare tutto: se cambiasse per esempio la forma delle ruote, quelle smetterebbero di girare e la macchina non si muoverebbe più. Lo stesso vale per i virus: possono mutare, ma non possono diventare mostri completamente diversi.

I vaccini per ora disponibili dovrebbero avere buone possibilità di funzionare anche sulle nuove varianti, secondo la dottoressa Swaminathan. I vaccini allenano il corpo ad attaccare diverse parti del virus, non solo la proteina spike che pare essere cambiata nelle nuove varianti. Magari avranno una efficacia minore o diversa, questo è possibile e occorre attendere i risultati di rigorose sperimentazioni per dirlo con certezza, ma i vaccini disponibili al momento producono una forte e generalizzata risposta immunitaria, che dovrebbe essere efficace anche se il virus dovesse cambiare un po’.

La variante che preoccupa di più a riguardo è la sudafricana, che ha la stessa mutazione della proteina spike presentata da quella inglese, e due aggiuntive. Pare che queste ultime permettano al virus di sfuggire agli anticorpi, sebbene le ricerche a riguardo siano preliminari. Nonostante questo, come accennato per l’esempio dell’influenza stagionale, i vaccini possono essere modificati. Alcuni sono sempre gli stessi, come quello del morbillo per esempio, ma nulla vieta, se ve ne fosse il bisogno, di modificare i vaccini che abbiamo oggi per adattarli a nuove forme di coronavirus, come quella sudafricana.

Oltre a questa premessa generale, le ricerche condotte finora sono relativamente ottimistiche, anche se non ancora concluse. I primi risultati sembrano confermare che il vaccino Pfizer funzioni anche contro la variante inglese  e che il vaccino Moderna protegga dalla variante sudafricana.

Gli scienziati in tutto il mondo sono costantemente al lavoro, stanno monitorando l’andamento delle nuove infezioni e studiando l’efficacia dei farmaci. Prendendo le dovute precauzioni fino al contenimento di queste nuove ondate dovremmo superare l’emergenza, anche se il virus continuasse a non collaborare presentando nuove mutazioni.

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Sonia Turrini

Sonia Turrini

Sono laureata in psicologia, attualmente impegnata in un PhD in Neuroscienze a Bologna. Sono cresciuta con la cultura americana nell’aria, l’Herald Tribune in salotto, i libri dei grandi presidenti sulle mensole di casa, e Bruce Springsteen nelle orecchie. Non ho memoria di quando ancora non conoscevo Streets of Philadelphia, perché ero troppo piccola per ricordare. E pensavo parlasse di formaggio. Ho visitato gli Stati Uniti la prima volta, ancora ragazzina, nell’estate 2008, e ho passeggiato con la mia spilletta Yes We Can appuntata sullo zaino. Seguo con passione la politica americana da anni, e oggi ne scrivo sperando di portarci il valore aggiunto della mia formazione scientifica: le opinioni sono sempre ben accette, ma solo sulla base di fatti oggettivi, dimostrati e condivisi.

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