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Coronavirus: dalle nuove abitudini imposte, almeno la libertà di sentirsi E.T.

Cronache, riflessioni e amarezza della vita e del nostro lavoro che dobbiamo comunque svolgere al tempo del coronavirus

Valter VecelliobyValter Vecellio
Coronavirus: dalle nuove abitudini imposte, almeno la libertà di sentirsi E.T.

Foto di Mikes/pixabay.com

Time: 7 mins read

Non c’è nulla di che rimproverarsi, ma un vago sentimento di vergogna c’è ugualmente. Questa tragedia del Coronavirus sconvolge l’intero pianeta, e i prezzi abbiamo appena cominciato a saldarli: in termini di vite umane (e chissà quanti altri lutti ci attendono); in termini economici: persone, famiglie, comunità, Stati che pagheranno carissimo quello che è accaduto, accade, accadrà per chissà quanto tempo…

Prima o poi certamente verrà qualcuno a chiedere che si paghi il conto di questa pessima e non richiesta “minestra”; i “piani Marshall”, i “New Deal” di cui si parla per ridare ossigeno a un mondo che boccheggia, non saranno una manna piovuta dal cielo. Come non si stancava di ricordarci il premio Nobel per l’economia Milton Friedman “there is No Such Thing as Free Lunch”; le sue teorie liberiste le possiamo contestare quanto si vuole, ma questa legge nessuno può smentirla.

Dunque è sicuro che prima o poi qualcuno che verrà a prelevare una percentuale dai nostri conti in banca, dai nostri stipendi e guadagni. Verranno chiamati, questi prelievi, in modo suadente: “contributo di solidarietà”; diranno che chi più ha, più deve dare, e altri simili zuccherini, per farci ingoiare l’ennesima patrimoniale. E molti di noi potranno dire che va ancora bene.

Perché – lo scrivo mentre tocco tutti gli amuleti possibili, e qui il vago sentimento di vergogna – questa tragedia del Coronavirus personalmente mi lambisce senza far troppi danni. Le persone a cui sono legato da sentimento di amore o amicizia, stanno, per loro e mia fortuna, tutte bene. Nessuna di loro muore nel modo atroce come si muore per Coronavirus; nessun ricoverato, colpito, lesionato nei polmoni, nel fegato, nelle reni… 

Sì: i contatti da settimane sono limitati a telefonate; niente baci, abbracci, intimità, per timore di provocare danni irreparabili. Poi i “fastidi” domestici e quotidiani: lamentarsi, in questa situazione per aver dovuto imparare a caricare una lavatrice e magari il primo “carico” ti restituisce gli asciugamani variamente colorati, potrebbero essere abiti d’Arlecchino? Cosa volete che sia…un asciugamano alla fine deve asciugare, chi se ne frega del colore. Ci sono altre quotidiane incombenze, come far la spesa: fila in attesa del tuo turno, mascherina, guanti, scegliere alimenti non complicati perché la tua specialità è pulirli i “piatti”, non prepararli. Poi, sì: c’è la seccatura, tutta italiota, che devi avere in tasca un’autocertificazione dove assicuri di essere a conoscenza di tutti gli articoli, i commi e i sottocommi dei sei o sette decreti sfornati dal governo in un mese, e ti assumi la responsabilità che se dici che fai la spesa, davvero sei andato a fare la spesa (le buste con quello che hai comperato non basta, evidentemente). Un poliziotto ti può fermare, devi fargli vedere il pezzo di carta, lui un interrogatorio, redige un verbale, chissà se e quando verificheranno se hai detto il vero. Se ti sei inventato una balla rischi una multa. Puoi andare a far la spesa, in farmacia, a far benzina. Una passeggiata? Sì, ma non ti devi allontanare più di duecento metri da casa? La pipì del cane? Permessa. Carta, penne, matite? No, quelle no, le cartolibrerie sono chiuse. Ma questa roba la vendono anche al supermercato. Non importa, non si può… Via internet? Sì, via internet si può.

La connessione per fortuna, regge. Hai poi la fortuna che i giornali te li vendono a cinquanta metri da casa, se vuoi te li portano anche; la farmacia è a cento metri. La ferramenta lì attaccata. Certo, niente cinema, niente teatro, niente concerti. I capelli sono diventati un cespuglio, ma i barbieri sono chiusi. La pulizia dei denti? Rimandata. Camicia, maglietta? Niente da fare. Solo per i bambini, gli adulti non hanno diritto a ricambi. Perché? Perché sì. Però c’è una comoda terrazza, alcune migliaia di libri che attendono di essere letti, il tempo, climaticamente parlando, è perfetto; il tuo ufficio privato è al piano terra del condominio dove abiti. In più, la fortuna di fare un lavoro che ti “concede” permessi speciali per quel che riguarda i movimenti, e dunque sono “arresti domiciliari” relativi.

Quando vai in redazione, ti viene un pà una stretta al cuore: silenzio, passi felpati, e quando ci sono. Una redazione spettrale: nell’open space dove di solito si lavora in dieci, ora quando va bene si è in due; all’entrata ti misurano la temperatura, non si sa mai tu abbia la febbre; una dotazione di guanti e mascherina, la raccomandazione a mantenere le distanze, un metro, meglio due. Chiuso il bar interno, c’è solo quell’orribile caffè da macchinetta. Meglio: si sta senza. La mensa dove un tempo ci si accalcava a centinaia, lunghissime file, ora “ospita” si è no una decina di irriducibili, tutti in tavoli separati, per dire “buongiorno” al vicino devi urlare; piatti di plastica, posate di plastica, bicchieri di plastica… I più rinunciano, si portano il panino da casa. Quali altre “lamentazioni”?

I servizi si fanno da casa, chiamarlo smart-working fa più chic, o forse è un modo per occultare un qualcosa che almeno nel mio campo, il giornalismo, la equiparo a una bestemmia. Nel computer ti arrivano i dispacci di agenzia, e questo è il primo atto di fede. Che controllo si può fare? Ti fidi, anche se sai che spesso si tratta della rielaborazione di un comunicato redatto da una fonte interessata. A quel testo occorre “incollare” delle immagini. Nessun problema. Sono le stesse fonti, sempre più spesso, che ti forniscono i filmati, mandandoti dei file nella tua casella di posta elettronica. Chi ha girato quelle immagini? Come? Quando? Dove? Altro atto di fede. Ci metti la tua voce, la tua firma, e questo è il servizio. Verifica? Nessuna. Atto di fede.

La redazione del “New York Times” di tanti anni fa

Mi fanno sentire un po’ come un E.T. capitato per sbaglio in redazione colleghi che potrebbero essere miei figli, anagraficamente parlando. Per loro è normale stare per alcune ore incollati ognuno alla propria scrivania, e ora che c’è l’emergenza Coronavirus  neppure in redazione, ma accovacciati nei nostri studi casalinghi: a piluccare dispacci di agenzia e “stamparli” su filmati girati da operatori, di cui neppure sanno il nome.

Sì, ti senti proprio E.T. quando osservi che ognuno di noi ha una bocca che serve sì, per mangiare, ma anche per emettere suoni, che si articolano in domande, e per avere risposte. E non è maleducazione, ma il minimo sindacale obiettare a un politico che mena il can per l’aia: “Non ha risposto alla mia domanda”.

Così E.T. guarda tutto quel lavoro, lo trova freddo, noioso, burocratico: nessuna emozione, nessuna riflessione, nessuna invettiva. Non ti vien da dire: “Diavolo! Com’è possibile che accada tutto ciò?”. Niente. Capita perfino che ti addormenti di fronte a servizi che durano appena un minuto, di saltare a pié pari articoli scritti con immaginifico stile, ma che sono sterile esercizio da mestierante… Mancano i volti, i sorrisi, le lacrime, il dolore, il pianto, il riso, la sofferenza, la gioia. Quando  E.T. dice queste cose, gli si risponde che c’è un’emergenza, non si può far altro.

Ma ci sarà sempre un’emergenza; e creato un precedente, si stabilisce una regola, che si applicherà in futuro; un futuro non troppo futuro, un quasi presente: verranno degli “esperti”, e sapranno trovare modo e parole per convincerci che tutto sommato si può fare a meno del dialogo e del contributo di una “squadra” che opera sul campo; ci troveremo soli davanti a uno schermo capaci di tutto e di nulla insieme, e magari qualcuno ne sarà anche compiaciuto…

E.T. non sa come spiegare a quei colleghi che anagraficamente potrebbero essere suoi figli che una cosa vista in prima persona, ascoltata, verificata sul posto, vale mille sofisticati software e nessun tablet potrà mai sostituire la palpitante scrittura manuale su un taccuino… E.T. non dice queste cose perché preda di un nostalgico riflesso di pigro che rifiuta le “nuove tecnologie”; E.T. chiede e si chiede: sicuri che si stia facendo la cosa giusta?

E.T. si ricorda una storia di tanti anni fa. Un giorno il capo-redattore di un settimanale propone a un esordiente, ma già promettente fotografo, di andare “a fare un giretto in America”. Si tratta di andare con un giornalista a New York, affittare un’automobile, e andarsene verso l’Ovest, finché non si raggiunge la costa del Pacifico; poi, tornare indietro. “Magari poi lo rifate, prendetevi il tempo che vi serve. Tornate quando avrete un grande racconto”. I due tornano dopo tre mesi. Hanno percorso 27mila chilometri; il fotografo ha scattato quattromila foto. C’è di tutto: luoghi, persone, volti, dettagli, oggetti, trasmettono emozioni, sensazioni, aspirazioni, delusioni… Nel “grande racconto” mille storie… Questa è la storia di “Heartland”: un classico, ancora oggi sfogli quel volume, ne resti abbagliato. L’esordiente si chiama Thomas Hoepker, un classico lui pure. “Non puoi raccontare nulla in cinque giorni”, dice. Figuriamoci in cinque ore, in cinque minuti, anche se hai un super computer a straordinaria definizione che ti fa parlare con il mondo. Quel capo-redattore che dice: “Prendetevi il tempo che vi serve”, non esiste più, rimpiangerlo serve a nulla. Quel tempo è finito. Però si capisce, vero, perché uno di fronte a servizi impeccabili, precisi, iper-corretti resta freddo come un ghiacciolo, e l’unica reazione è un incontenibile, irrefrenabile, enorme sbadiglio?

Uno dei più bravi inviati italiani, Bernardo Valli ha appena tagliato il traguardo dei novant’anni. Parmigiano doc, vive da sempre a Parigi; ha girato il mondo in lungo e in largo, ha visto tutto, scritto di tutto. Dice che ancora riesce a sorprendersi, ed è bellissima cosa. Del mestiere di giornalista dice oggi si dispone di una grande, straordinaria documentazione: “Manca l’esperienza sul campo, il tatto, gli odori, i caratteri“. E.T. ora si sente meno solo.

Partiti dal Coronavirus, guarda dove si è finiti, a dare libero corso ai pensieri…

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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