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January 13, 2008
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January 13, 2008
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Processi di Mafia/ Contrada, Mori: traditori o traditi?

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Time: 6 mins read

Accanto il Generale dei Carabinieri Mario Mori 

Pietro Milio, avvocato penalista del Foro di Palermo, nella vita ne ha viste di cotte e di crude (è stato anche parlamentare eletto nella lista Pannella). Tanto per cominciare, da quindici anni difende Bruno Contrada, il superpoliziotto condannato a dieci anni di galera per mafia con una sentenza che non finisce mai di suscitare perplessità. Poi ha difeso Mario Mori, generale dei Carabinieri, già ai vertici del Ros (il Reparto operativo speciale dell’Arma) e poi ai vertici del Sisde, il Servizio segreto civile. Lo ha difeso nella tormentata vicenda del covo Totò Riina. Storia tutta italiana (avvertimento più che mai necessario per i lettori americani) e, naturalmente, controversa. Che risale al 1993, quando viene catturato il boss dei corleonesi, Riina. Una grande operazione di intelligence macchiata dalla mancata perquisizione della casa dove l’allora capo della mafia siciliana viveva. Oggi Milio torna a difendere Mori, accusato di aver mandato all’aria, nel lontano 1995, la cattura dell’altro boss corleonese, Bernardo Provenzano.
La prima domanda che poniamo a Milio parte da una considerazione: sia Contrada, sia Mori sono stati ai vertici del Sisde, e tutt’e due sono accusati di aver aiutato due grandi boss mafiosi a rendersi uccel di bosco. Insomma, avvocato, questo Sisde porta sfiga…
"Bisognerebbe vedere perché porta sfiga – ci risponde Milio -. Contrada, nel 1991, operò per utilizzare il Sisde anche nella lotta alla mafia, compresa la cattura dei latitanti. Ecco, secondo me il lavoro svolto da Contrada deve avere suscitato la gelosia di qualche nascituro".
Prego?
"Insomma, avrà fatto ombra a qualche apparato dello Stato allora nascente. Parallelamente, il Ros, che nel 1993 ha arrestato Riina, comincia a subire contestazioni. Il riferimento, ovviamente, è alla vicenda del covo di Riina".
Avvocato, ammetterà che è singolare catturare il più importante boss mafioso dell’epoca e non perquisire l’abitazione dove viveva chissà da quanto tempo.
"Non condivido la sua considerazione. Quegli ufficiali dei Carabinieri, e in particolare Mori, ultimi allievi di Carlo Alberto Dalla Chiesa, seguivano una tecnica investigativa e operativa precisa: e cioè non rompere il filo d’indagine costruito con grande fatica nel tempo. Il Ros, giustamente, voleva colpire tutta l’organizzazione che, negli anni, aveva protetto Riina. Tra l’altro, in quel covo c’erano moglie e figli del boss".
E questo che significa?
"Significa che i mafiosi tutelano la propria famiglia prima di ogni altra cosa al mondo. Una base operativa della mafia lì avrebbe messo in pericolo i familiari di Riina. E questo un boss mafioso non lo avrebbe mai consentito".
Se non ricordiamo male, i magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo vennero informati di tutto.
"E’ tutto vero. Mori informò i magistrati, e in particolare l’allora capo della Procura, Giancarlo Caselli. Cosa, questa, confermata dal giudice Luigi Patronaggio, che stava per dare il via alla perquisizione del covo e venne bloccato".
Tutto questo, però, non ha eliminato le polemiche. E un processo che ha visto come imputato non soltanto Mori, ma anche il capitano ‘Ultimo’.
"Per amore di cronaca e di verità, dobbiamo sottolineare che tutt’e due sono stati assolti. Tuttavia, in questa storia del covo, dove si è parlato di tutto, è rimasta senza risposta una domanda".
Quale?

"A due passi dal covo di Riina, proprio all’incrocio con la circonvallazione della città, c’era sempre un fruttivendolo con il suo furgoncino. Dopo l’arresto di Riina questo signore è scomparso. Era proprio un fruttivendolo? E poi c’è un’altra cosa ancora".
Cosa?
"Ricordo che in una nota inviata ai giudici di Milano, i pubblici ministeri di Palermo scrivono che la cassaforte dell’abitazione di Riina era stata asportata da chi aveva ripulito il covo. Poi, però, si scopre che i due che avevano ripulito il covo erano talmente noti agli inquirenti che erano stati subito individuati dai Carabinieri, interrogati, processati e assolti".
Assolti?
"Sì, assolti. I due si giustificarono dicendo che erano stati contattati dal padrone di casa per imbiancare le pareti dell’abitazione. Cosa che è risultata vera. Altro che covo ripulito! Tra l’altro, in una stanza della casa vennero trovati i mobili accatastati e chiusi nel cellofan. Proprio perché i due stavano imbiancando i muri".
Mettiamo da parte la vicenda del covo di Riina e parliamo di questo nuovo caso. Ci può spiegare di che si tratta?
"Michele Riccio, colonnello dei Carabinieri oggi in pensione, nel 2001 si ricorda che, nel 1995, Mori avrebbe impedito la cattura di Provenzano. Mi spiego meglio. Riccio dice che in quegli anni poteva contare su un confidente, Luigi Ilardo, oggi deceduto. Questo Ilardo avrebbe potuto portare gli inquirenti a Provenzano. Ma, dice Riccio, non se ne fece nulla perché Mori lo impedì. Ovviamente, è tutto falso. Prove alla mano".
Cioè?
"Cominciamo col dire che Riccio è finito nel bel mezzo di una vicenda giudiziaria per una storia legata agli stupefacenti. Nel maggio dello scorso anno si è beccato nove anni e sei mesi di reclusione. Questa precisazione è importante".
Perché?
"Perché oggi, Riccio, con le sue accuse, smentisce un rapporto che porta la firma del capitano Mauro Obino, ma che è stato stilato proprio da lui. In questo rapporto, denominato ‘Grande Oriente’, Riccio racconta che Mori gli aveva detto di dotare Ilardo di un registratore mimetizzato. Questo dimostra che Mori non ostacolò minimamente Riccio. Oggi, però, lo stesso Riccio smentisce il suo rapporto".
Perché, secondo lei, Riccio accusa Mori?
"Forse per alleggerire la sua posizione giudiziaria".
Magari viene utilizzato da qualcuno?
"Non è da escludere".
Da chi?
"Da chi potrebbe avere avuto interesse a mettere nei guai Mori".
Perché dovrebbero mettere nei guai Mori?
"Potrebbe essere una vendetta. O, con molta più probabilità, un’azione mistificatoria di copertura di vicende tristi e tragiche che hanno attraversato l’Italia. In fondo, se riflettiamo, nella vicenda del covo di Riina hanno tirato in ballo pure il capitano ‘Ultimo’. Anche se l’obiettivo non era lui".
Ovvero?
"L’incriminazione di ‘Ultimo’ avrebbe dovuto rendere più credibile le accuse mosse a Mori. E la prova di ciò è che i responsabili intermedi nell’operazione legata alla gestione del covo di Riina, pur avendo avuto un ruolo attivo, non sono mai stati sfiorati. Così come, in questa nuova vicenda che coinvolge ancora una volta Mori, è strano che per gli stessi fatti non sia stato incriminato Riccio, che pure era impegnato nell’operazione".
Avvocato, ci tolga una curiosità: della cattura di Riina è stato detto tutto e il contrario di tutto: grande operazione dei Carabinieri e patteggiamento tra Stato e mafia. Lei che idea si è fatto?
"La cattura di Riina è stata una brillantissima operazione di polizia giudiziaria. Il resto sono chiacchiere malevole".
Insomma, l’invidia avrebbe generato una tempesta di fango…
"C’è stato certamente il concorso a seminare il dubbio".
Oggi il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, dice che suo padre collaborò con lo Stato per far catturare Riina…
"Nelle parole di questo Massimo Ciancimino non c’è nulla di vero. La verità è che, nella disperazione istituzionale di quei giorni – ricordiamoci che c’erano stati attentati ai luoghi simbolo della cultura italiana – c’era chi parlava di resa dello Stato e chi si rimboccava le maniche. Gli uomini del Ros erano tra questi ultimi. Così si misero alla ricerca di soggetti che avrebbero potuto consentire la cattura di questi pericolosi boss. Vito Ciancimino, nei colloqui investigativi autorizzati dalla magistratura, quando capì che gli ufficiali dei Carabinieri avevano il solo obiettivo di farsi indicare da lui la strada per catturare i latitanti, cacciò di casa Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Li cacciò da casa dicendogli: andate via, voi mi volete morto e volete morire pure voi. In quel momento, tanto per capirci, Ciancimino temeva ritorsioni anche sui suoi figli".
Vuole dire qualcosa ai lettori che la leggono in America?
"Che se questa è la Giustizia italiana, beh, c’è da fuggire da questo Paese. Purtroppo, non posso farne a meno di essere pessimista".

 

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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