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April 1, 2019
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Al Whitney Museum di New York l’arte e il colore “traboccano”

“Spilling Over; painting in the 1960” è una mostra tratta dall’immenso patrimonio artistico del Whitney. Indiscusso protagonista, il colore

Mauro LucentinibyMauro Lucentini
Al Whitney Museum di New York l’arte e il colore “traboccano”

Emma Amos (b. 1938), Baby, 1966. Oil on canvas, 46 1/2 × 51 in. (118.1 × 129.5 cm). Whitney Museum of American Art, New York; purchased jointly by the Whitney Museum of American Art, with funds from the Painting and Sculpture Committee; and The Studio Museum in Harlem, museum purchase with funds provided by Ann Tenenbaum and Thomas H. Lee T.2018.33a-b. © Emma Amos; courtesy of the artist and RYAN LEE Gallery, New York.

Time: 3 mins read

La prima mostra multi-rivoluzionaria si è aperta in questi giorni all’ultimo piano del museo Whitney, specialista di arte americana che si trova sulla punta estrema di Manhattan in un edificio affacciato sul mare dovuto al disegno di Renzo Piano; è “multi” perché i suoi espositori insorgono contro l’abituale in una quantità di maniere, principalmente artistiche ma non soltanto. Un esempio è il pittore afro-americano Bob Thompson, nato nel 1937 nel Kentucky ma purtroppo morto già nel 1966 a Roma. Sentiva che non era lui a dare un senso ai suoi dipinti, ma i suoi dipinti ad imporgli quello che doveva dire: “nascono ogni volta che c’è qualche cosa dentro di me che spinge, scalcia, scoppia, trabocca insomma perché deve uscire fuori”, diceva. Da questa frase è uscito anche il titolo della mostra, che si intitola “Spilling Over; painting in the 1960”, che indica il colore “che trabocca” negli Anni Sessanta. La mostra è tratta interamente dall’immenso patrimonio artistico del Whitney. In generale, dall’insieme dell’opera di questi pittori esce una tendenza a rovesciare l’evoluzione dell’arte moderna che nella prima metà del secolo scorso era andata dal figurativo all’astratto, ad opera di giganti come Cézanne e Picasso; invece, nella seconda metà in quanto documentata da questi artisti, dall’astratto emergono elementi  che rintracciano il figurativo. 

Alvin Loving (1935-2005), Septehedron 34, 1970. Acrylic on shaped canvas, 88 5/8 × 102 1/2 in. (225.1 × 260.4 cm). Whitney Museum of American Art, New York; gift of William Zierler, Inc. in honor of John I. H. Baur 74.65. Courtesy the Estate of Al Loving and Garth Greenan Gallery, New York

La chiave è, ovviamente, il colore, facilitato in maniera speciale da un’invenzione tecnica, la vernice acrilica, più leggera e duttile di quella ad olio che aveva regnato per mezzo millennio. Bisogna notare che tra queste due fasi c’è stato l’interregno della Pop Art, che placando le ansie generate dalla civiltà industriale ha permesso di investigare senza inibizioni nuove strade espressive. Uno degli esempi importanti è stato Jackson Pollock, il quale rovesciava per terra barattoli di colore e che in certo modo si può considerare il progenitore di tutti questi nuovi pittori. Torniamo a Bob Thompson che nella mostra espone una tela intitolata “The Triumph of Bacchus”, del 1964, un largo impasto cromatico in cui si agitano ombre umane derivate forse da ricordi del disegno rinascimentale italiano. Il quadro vuole significare, nel titolo stesso, una vittoria contro le repressioni borghesi, che a Roma può essere avvenuta attraverso un trionfo del vino dei Castelli, anche se la morte di Thompson due anni dopo è stata determinata da una super-dose di eroina. A compiangerlo amaramente è stata un’altra americana, la sassofonista Steve Lucy, che giustamente trovava nelle sue opere un forte riscontro musicale e in particolare del jazz. Ma ho detto all’inizio che l’insurrezione di questi artisti, non tutti giovani anzi ce ne sono di molto vecchi, è andata in parecchie direzioni, ed enumero, oltre a quelle artistiche, anche quelle politiche e quelle civili: lo spazio dato all’arte femminile (fondamentale, in questo campo, il lavoro di Helen Frankenthaler, che aggiungeva acqua all’acrilico per renderlo ancora più sinuoso e penetrante, e quello di Emma Amos, autrice di figure allucinanti); la protesta contro il razzismo, espressa da artisti come Thompson e Romare Beardsen, quella contro la contaminazione dell’ambiente (denunciata nelle figurazioni fumose della californiana Kay Walking Stick) e quella contro il campanilismo artistico, espressa dagli sprazzi di colore dell’oggi ottantenne Frank Bowling, originario della Guyana sudamericana. Non voglio dimenticare Marcia Hafif, pittrice californiana morta l’anno scorso novantenne, sola superstite del movimento politico di difesa dei diritti civili “Spiral” che fu molto attivo a New York e che fu pure molto vicina all’ambiente artistico in Italia dove trascorse quasi tutti gli Anni Settanta.

Kenneth Noland (1924-2010), New Day, 1967. Acrylic on canvas, 89 3/8 × 184 1/4 in. (227 × 468 cm). Whitney Museum of American Art, New York; purchase with funds from the Friends of the Whitney Museum of American Art 68.18. © 2018 The Kenneth Noland Foundation / Licensed by VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY

Questa è una bella e interessante mostra, ma è anche significativa perchè documenta il successo dell’audace scommessa fatta dal Whitney cinque anni fa, quando,  abbandonando la sua bellissima sede su Madison Avenue al centro di Manhattan, si trasferì nell’edificio più grande creato da Renzo Piano nella parte più isolata e anche un po’ desolata di New York, quasi riva del mare. Tra i pessimisti ero io stesso, che, soprattuto a causa della relativa scarsezza di mezzi pubblici nella zona, temevo che la gente avrebbe stentato a recarsi tanto lontano. Invece vedendo oggi la doppia fila che circondava l’intero museo per poter entrare, mi sono definitivamente ricreduto. Vero che nei piani inferiori è ancora aperta la gigantesca mostra personale di Andy Warhol, senza il quale dubito che nulla di tutto questo sarebbe avvenuto.

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Mauro Lucentini

Mauro Lucentini

Sono nato e vissuto a Roma che però ho abbandonato più di mezzo secolo fa per fare il giornalista in varie parti del mondo. Ne ho tratto una specie di complesso di colpa nei confronti della mia città natale, complesso che ho un po’ alleviato scrivendo da lontano una Grande Guida di Roma, che si vende in diverse lingue in diversi paesi. A New York venni per rimanerci tre o quattro anni, invece ci incontrai la ragazza più carina e dolce del mondo così ci sono rimasto, mettendo su, come si suol dire, famiglia. Lei però, pur essendo tanto più giovane di me, è poi scomparsa come un fiorellino che muore. In questa lunga carriera, cominciata quasi da bambino, ho sempre scritto sia di politica che di arte e di questo non mi pento.

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