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May 10, 2018
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Come il pubblico guarda Avengers: il vademecum di un Osservatore

L'esperienza mistica di guardare Avengers - Infinity War in una sala degli USA: più che a guardare il film, finisci a guardare il pubblico

Giuseppe De LauribyGiuseppe De Lauri
Come il pubblico guarda Avengers: il vademecum di un Osservatore

Una scena di Avengers, Infinity War.

Time: 5 mins read

Il plot del film è interessante per chi prova piacere nel vedere effetti in CGI, storie iper- semplificate e per chi vuole immolare circa tre ore al vuoto totale. Non che il genere dei supereroi sia brutto in sé: quando si parla di cinema la soggettività fa la differenza. Anzi, a molti il genere piace proprio perché rilassante. Ad altri, interessa vedere sullo schermo gli eroi che hanno letto sui comics nei gentili anni dell’infanzia e adolescenza. Basta sedersi comodi e per un po’ di tempo si torna ragazzi.

L’esperienza più elettrizzante, però, avviene solo se si guarda questi film nelle sale degli Stati Uniti. È un’esperienza davvero sbalorditiva per chi non ne è consueto. Addirittura mistica se si passa tutto il tempo ad osservare gli spettatori, invece dello spettacolo. Ci si siede, belli comodi, e scena dopo scena si ha la sensazione che tutto il film sia costruito per provocare reazioni nel pubblico (americano, ndr).

Un Osservatore, uno di quelli appassionati ai comics, decide di cambiare prospettiva. “Lo spettacolo più bello” pensa “è quello del pubblico stesso”. Allora, spalle allo schermo, gira la sua poltrona e decide di osservare l’audience durante la proiezione. Osservare e prendere nota.

Qui di seguito uno stralcio dei suoi appunti.

All’inizio compare Thor, atavico dio della mitologia norrena, qui eroicizzato in maniera puerile. Il personaggio è semplificato per arrivare ai più, anche a costo di far rivoltare i nobili guerrieri vichinghi nei tumuli. In fondo, è il marketing che fa guadagnare.

Thor combatte, a lui si unisce Hulk, e il pubblico esulta come all’ingresso dei finalisti del Superbowl. Entrambi gli eroi sono feriti, battuti. Dalla sala si alza un portentoso “nooooooo”.

Stessa scena, ma con super eroi diversi. Siamo sul pianeta Terra: alcuni eroi si battono; la sceneggiatura segue il suo corso, ma ad un certo punto, cadenzato dai movimenti della camera e dalle luci soffuse, ecco Capitan America. Il suo ingresso è reso epico dalla regia, o almeno così sembra osservando le reazioni dei guardanti: screpitii, esultanze, gente in piedi che applaude e gente seduta che urla “sit down!”.

L’America è entrata in campo e saranno dolori per tutti. Nessuno resisterà al suo scudo a stelle e strisce. L’Osservatore che osserva il pubblico pensa: “eccolo qui, lo sciovinismo americano”.

E invece no. Il nazionalismo c’entra fino a un certo punto. Lo sguardo del pubblico è catturato dalla storia, e il Capitano è solo il simbolo trasversale di anni e anni di simbolismo.

L’Osservatore, dalla sua comoda poltrona, ha un pensiero profondo: “I soldi fanno male al cinema. Le produzioni scrivono ormai le storie rispettando la psicologia dell’attenzione, quella che dice che ogni 15 minuti deve accadere qualcosa, altrimenti il pubblico si annoia”.

Fa il suo ingresso in scena Stan Lee in un cameo, come avviene in ogni film della Marvel da oltre dieci anni. Pop corn che volano e risate. Neanche fosse la battuta più intelligente di George Carlin.

Lo spettacolo (del pubblico ovviamente) si fa sempre più interessante.

La scena finisce con Iron Man e l’uomo ragno che momentaneamente hanno la meglio sul cattivo. Una lunga fila di “yeeeees!”, “Gooo!”. L’arena approva la vittoria. Pop corn piovono nell’oscurità.

A questo punto l’Osservatore, sempre di fronte al suo pubblico, ha un secondo pensiero profondo: “Forse che anni di semplificazione del messaggio e pensiero Power Point , anche le emozioni si sono banalizzate? Forse addirittura retrocesse a uno stadio infantile?”

Per gli eroi non si mette bene: il potente Thor, che interpreta ormai la linea comica della trama, è in seria difficoltà con il super cattivo. Non ce la fa, poverino. La gente lo capisce e ne è dispiaciuta, in modo eccessivo. L’Osservatore pensa  “Forse lo schermo sta mostrando una persona malata che lotta per la salvezza? O forse la tragica fine di una storia d’amore?”

No, il vichingo ha rotto il suo martello. Non può più prendere a martellate i cattivi. Deve ricominciare il viaggio dell’eroe, quello che plasma tutti i racconti dall’Epica ad Iron Man.

Si può riassumere in questa semplice stringa: l’eroe vive bene; l’eroe ha una mancanza; l’eroe colma quella mancanza con qualcosa; quel qualcosa gli viene tolto (magari l’amore di una donna) dall’antieroe; l’eroe intraprende un viaggio di crescita e trasformazione; questo percorso è arduo e pericoloso; l’eroe compie il suo destino e supera l’ostacolo con accresciuta consapevolezza (magari più potere); l’eroe torna ad affrontare l’antieroe. Da qui il finale è libero: o ce la fa o non ce la fa.

Questo archetipo è il più utilizzato di sempre: è quello che accomuna l’Odissea, Harry Potter ed ora gli Avengers. Ed è pure il più efficace, parola di Dante. La differenza sostanziale, una quisquilia, è come viene raccontato. In questo film, il percorso è così semplice e prevedibile da risultare imbarazzante. Non che si cercasse altro, per carità, eppure il pubblico ne è estasiato. “Thor really is gonna do that?”.

L’Osservatore la vede, l’estasi, germinare su tutti i volti che gli sono di fronte, e ha una terza epifania:

“È una cosa autentica. Si vede che è un’emozione vera. Si vede che la gente prova empatia. Ma sarà anche una cosa positiva? È davvero rassicurante vedere gente che esulta e piange, e applaude e si dispera per dei personaggi volutamente così irreali? Può una storia così, da poche pretese, far vomitare profonde emozioni? Non è che tutte queste storie, mediate e semplificare all’eccesso, ci stanno fottendo il cervello?”.

Si avvicina il finale. Alcuni supereroi muoiono, sempre in maniera rilassante, almeno per l’Osservatore. Per il pubblico no. Una faccia giovane attira l’attenzione. Una ragazza piange e si stringe al suo ragazzo. Ha gli occhi lucidi anche lui. Una mano sulla faccia. A guardar bene, dalla prima all’ultima fila ci sono almeno tre persone ogni dieci che l’hanno presa davvero male. Quando Capitan America scompare si sente un “nooooo” agghiacciante. Una ragazza si alza in piedi e comincia a urlare verso lo schermo, come se i personaggi potessero sentirla. Un’altra cerca di imitarla ma i pop-corn le ostruiscono l’apparato fonatorio e si sente solo un “jeeezjeeeez”. Malauguratamente la quarta parete è sempre lì e stavolta, facciamocene una ragione, non c’è nessun lieto fine.

Lo spettacolo è finito e l’Osservatore è contento di aver assistito ad una delle rare manifestazioni naturali dell’uomo moderno. Qualcosa di mistico è successo in quella sala di New York.

Queste reazioni hanno sorpreso il nostro Osservatore, che ancora ama quei fumetti e quei film per quello che sono: storie per ragazzi, un pò pretenziose nel considerarsi Kolossal, che vanno bene anche per adulti maturi.

“Va a finire che per staccare il cervello dovrò andarmi a vedere qualche film di Bergman” pensa tra sé e sé, mentre compra un biglietto per il prossimo spettacolo. Stavolta è sicuro di potersi rilassare e godersi il film per quello che sarà: storie semplici, combattimenti e CGI. “Non potrà andare peggio di prima” pensa, e intanto si addentra nella sala. È già piena, tutti attenti. Il titolo è Black Panther.

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Giuseppe De Lauri

Giuseppe De Lauri

Ho passato gli ultimi anni errando di città in città. Oggi sono a New York, dove mi occupo di politica, di comunicazione, tecnologia e dei loro innesti mutuali. Al giorno d’oggi c’è poco che possa prescindere da questi tre fattori.

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