Questa volta ci occupiamo di un gigante, Murakami Haruki, autore amatissimo, di cui in Italia è appena stata pubblicata da Einaudi l’ultima raccolta di racconti, Uomini senza donne. Fuori dal Giappone, dove i singoli racconti sono stati pubblicati su riviste prima di uscire in volume nel 2014, alcune storie erano comparse in traduzione inglese sul New Yorker.
Murakami è, da sempre, a suo agio sia con il romanzo sia con i formati più brevi. Questa raccolta di racconti, sette per la precisione, è interamente dedicata all’amore, anzi, al punto di vista maschile sull’amore. E sulle donne.
Il tema centrale è quello “classico”, l’abbandono, o la perdita. Che sia per vedovanza, tradimento o incompatibilità, il motore di una storia è generalmente la sua fine. Nella narrativa ottocentesca erano più spesso le donne ad essere vittime dell’abbandono, anche fino alla più tragica delle conseguenze, il suicidio. In seguito il focus si è progressivamente spostato sull’uomo, di pari passo, forse, con la crescita della consapevolezza circa la sua fragilità. In questi racconti, la vittima della passione amorosa non corrisposta, del tradimento o della perdita è di sesso maschile. Non significa sia sempre “innocente”: può anche essere un consumato seduttore, e ciononostante, quanto l’amore lo coglie, vacilla, cade. Le conseguenze possono essere irreparabili: “A volte perdere una donna significa perderle tutte”.
Le recensioni uscite finora in Italia hanno insistito soprattutto su un racconto che rovescia la prospettiva della Metamorfosi di Kafka: non un uomo trasformato in scarafaggio, ma uno scarafaggio che si sveglia trasformato in Gregor Samsa, scoprendo subito quella molla potente della condizione umana che si chiama desiderio, anche se l’oggetto del desiderio è una donna con un evidente difetto fisico e nelle strade di Praga ci sono militari stranieri che arrestano la gente.
Ma in verità il registro magico-fantastico non è dominante. Il terreno sul quale si muove Murakami stavolta è quello maggiormente realistico, come nel suo romanzo più celebre, Norvegian Wood. Personalmente, pur senza negare il fascino di certi voli onirici contenuti in altre sue opere, una su tutte Kafka sulla spiaggia, lo preferisco così, e da lettore sempre interessato alle storie d’amore trovo che questo volume potrebbe diventare un piccolo classico.
Realismo, dicevamo. Ma l’approccio di Murakami alle sue trame e ai suoi personaggi è comunque, come al solito, un po’ obliquo. C’è una scelta stilistica precisa: far seguire quasi sempre la vicenda principale da un personaggio “terzo”, un testimone, un carattere minore. Nella prima storia, Drive my car, è una giovane donna che un attore di teatro assume come autista, e alla quale confida l’amicizia intrecciata con l’amante della moglie, dopo la morte di quest’ultima. Nella seconda, Yesterday, è un universitario che un compagno di studi particolarmente indisciplinato cerca di coinvolgere nella complicata relazione con la propria fidanzata. Nella terza, Organo indipendente, è un amico di palestra e di squash del protagonista, chirurgo plastico e scapolo impenitente che dopo innumerevoli rapporti con donne già impegnate, senza particolari complicazioni, all’improvviso si scopre perdutamente innamorato. E così via.
In generale questi testimoni-narratori entrano nelle vicende in punta di piedi o da ingressi secondari, anche se poi il loro sguardo o il loro giudizio è risolutivo e scioglie l’interrogativo amoroso sotteso al racconto. Un interrogativo del tipo: perché si tradisce, pur avendo una relazione soddisfacente, o perché certe persone in amore non possono fare a meno di prendere le cose alla larga e di fare delle diversioni, senza mai arrivare al punto. Ma anche: se si può – letteralmente – morire di consunzione amorosa, nello stesso modo in cui muore, di fame e stenti, un internato in un lager (sappiamo è stato Roland Barthes il primo a proporre, nei Frammenti di un discorso amoroso, la scandalosa analogia fra la condizione dell’innamorato che ha perso l’amore e il deportato ad Auschwitz).
Una tesi che emerge con chiarezza è che l’amore è un fatto linguistico: chi lo prova, chi ci è dentro, non può fare a meno di narrare, quali che siano i suoi scopi, e per la Sharazad de Le mille e una notte, che dà il titolo ad un’altra di queste storie, lo scopo era salvarsi la vita. Ma anche quando all’improvviso l’amore smette di parlare, e chiude la comunicazione, qualcuno ne raccoglie l’eredità, in maniera più o meno volontaria, per cercare di arrivare ad un chiarimento. Che può anche non esserci: specie se una misteriosa telefonata nella notte ti annuncia che la donna con cui sei stato anni prima si è tolta la vita – come avviene nel racconto che dà il titolo al libro, il più debole, forse – e poi si chiude, senza fornirti alcun altro indizio utile.
L’enfasi sulla narrazione amorosa richiama il tema della sincerità. La parola può essere confessione, ma anche menzogna, cortina fumogena. In uno dei racconti si enuncia persino la tesi – che in un autore diverso da Murakami potrebbe sembrare scandalosamente misogina – per la quale ogni donna nasce dotata di un organo speciale, “indipendente”, che le fa dire delle bugie senza che ciò turbi la sua coscienza.
In verità, in questo libro il grande assente è proprio il rancore, specie se rivolto dall’uomo verso il genere femminile. Se i protagonisti sono, più spesso, uomini traditi dalle loro compagne, non coltivano un desiderio di vendetta. In Kino, racconto nel quale riaffiora la vena fantastica dell’autore, il marito che ha sorpreso la moglie a letto con un collega di lavoro, e che decide di rifarsi una vita gestendo un bar in fondo ad un vicolo, dove può finalmente tornare a mettere sul piatto gli amati dischi jazz (Murakami stesso gestì per un periodo un jazz club a Tokyo), prova sì a dimenticare, ma non è abbastanza. “Non doveva solo dimenticare, doveva anche perdonare”. E nemmeno perdonare è abbastanza: bisogna avere rispetto per se stessi, e dunque saper ascoltare il proprio cuore, se si vuol evitare che i serpenti lo assedino. Bisogna avere il coraggio di ammettere: “Sì, sono stato ferito, e molto profondamente”.
Murakami Haruki, Uomini senza donne (trad. Antonietta Pastore), Einaudi, 2015.