Un newyorchese che ha un po’ di familiarità con la ristorazione italiana di qualità, è passato sicuramente per il Piccolo Cafe. E magari avrà anche avuto la fortuna d’imbattersi in uno dei suoi proprietari, il vulcanico Michele Casadei Massari. Di lui abbiamo già parlato in occasione delle belle iniziative spuntate dal suo cilindro, come le popcups coffee disegnate da Luca Carboni, o Bilingual, la mostra con i cinque scatti di Frankie hi-nrg MC in esposizione al Piccolo Cafe su Third Avenue, lo scorso anno. O ancora riportando del suo sodalizio con Andrea Romeo, il direttore del Biografilm Festival di Bologna e General Manager di I Wonder Pictures, che Michele aiuta selezionando i corti in qualità di I Wonder Pictures Advisor e curando il lato food dell’evento bolognese come Executive Chef – Biografilm Food Accademy.
Mezz’ora in compagnia di Michele prova che l’entusiasmo e la voglia di fare, quando incontrano una mente aperta e un animo colto, possono aiutare a trasformare i sogni altrui in realtà. Sì perché Michele Casadei Massari non è soltanto il self-made man che da Bologna è sbarcato a New York e ha costruito la sua fortuna, marcando il territorio di Manhattan con ben quattro punti Piccolo Cafe. Non è solo Executive Chef, un grande amante del cinema, un fine conoscitore dei meccanismi social e un ottimo oratore, ma incarna anche la figura del mecenate moderno. In fondo le cose non sono cambiate poi molto, nelle pratiche dell’arte, dal Rinascimento in poi. Gli artisti hanno sempre bisogno di supporto, non solo finanziario ma anche emotivo. Necessitano di animi nobili che li riconoscano, intercettino le loro abilità e diano loro il modo e lo spazio per valorizzarle. E questo, il modo e lo spazio, sono la moneta con cui il Mecenate Casadei Massari ha permesso a due giovani artisti di potersi esprimere.
Giuseppe Santochirico e Ilaria Cerutti appartengono ad ambiti diversi, a forme artistiche diverse. Uno abita a New York, l’altra in Italia. Regista e attore lui, fotografa lei. Giuseppe e Ilaria sono i primi due artisti emergenti che il Piccolo Cafe, grazie all’intuizione dei suoi proprietari — oltre a Michele, anche i soci Alberto Ghezzi e Gianluca Capozzi — ha sostenuto nella realizzazione delle proprie ambizioni artistiche.
Giuseppe lavora come cameriere al Piccolo Cafe su Amsterdam Avenue: uno dei tanti talenti che fanno mille lavori pur di realizzare le proprie aspirazioni. Michele è felice di raccontarmi di lui. “Mi piace la grandissima grinta che ha, e il fatto che sia intellettualmente integerrimo. Vedevo che si attardava sempre, dopolavoro, e faceva una telefonata dietro l’altra. Gli ho chiesto cosa facesse. All’inizio rimaneva vago, poi mi ha confessato che stava scrivendo il suo primo film: voleva vedere se era capace di realizzarlo da solo. Ho rispettato la sua volontà, e l’ho lasciato fare. Poi un giorno, vedendolo sempre alle prese con il telefono, gli ho chiesto quale differenza avrebbe fatto un piccolo gettone — un piccolo aiuto finanziario — in un progetto di quel tipo. ‘Lo renderebbe possibile al 100% e permetterebbe l’innesco materiale che ci servirebbe: noleggiare una cinepresa, pagare un operatore…’, mi ha risposto, sincero, Giuseppe. Allora cercando di rispettarlo il più possibile nella sua volontà di realizzare il film per conto proprio, gli ho chiesto se potevo offrire il catering per la troupe. Giuseppe si è illuminato come se avesse ricevuto il più grande finanziamento del mondo! Forte di poter assicurare un pasto ai suoi collaboratori, la troupe si è ingrandita. Di lì, ho visionato il materiale che stava scrivendo e mi è piaciuto molto”.
Su Giuseppe, Michele aggiunge: “Devo dire che è un attore incredibile: ha fatto mestiere dell’indole che ha di amare la gente, osservandola. Getta luce su un tratto distintivo di questo o quel soggetto, e lo ri-rappresenta, facendolo uscire dall’ombra. Non è artefatto, non fa il verso, coglie un carattere e lo rende percepibile a chi lo guarda, e riesce a farlo con maestria, e profondità. È un vero e proprio attore — rappresenta il genere umano — ed è un grande generoso di comunicazione. Lo vedo da come si rapporta ai clienti, dal modo in cui entra subito in empatia, dalla dizione che adotta con loro. Quindi un giorno mi sono fatto avanti e gli ho offerto un piccolo gettone oltre il catering alla troupe, per dimostrargli che credevo in lui, assicurandomi di non volere assolutamente nulla in cambio se non la promessa che avrebbe fatto il suo film. E l’ha fatto! Facendomi anche uno dei regali che possono ‘stendere’ un uomo. Senza svelare troppo… mi ha regalato un oggetto che si usa sul set, firmandolo e dedicandomelo…”. A Michele si accendono gli occhi, mentre parla, appassionato — e io penso che di grandi empatici, qui, non ci sia solo il suo pupillo…
Giuseppe Santochirico, non è un artista improvvisato. Si è formato a Roma presso la Link Academy, e a New York, dove ha frequentato la Film Academy. In Italia ha ottenuto una piccola parte in Basilicata Coast to Coast, il successo di Rocco Papaleo, e negli USA ha partecipato al film indipendente Meet Mario, del talentuoso italoamericano David J. Higgins. Bloody River, il suo primo cortometraggio finanziato da Piccolo Cafe ora in fase di post-produzione, è un neo-noir che vorrebbe investigare i rapporti di amore e potere in un microcosmo criminale — tra gli interpreti, figura anche Nicola Acunzo.
“Ho trovato il mecenatismo di Michele e dei suoi soci fondamentale — racconta Giuseppe Santochirico del suo rapporto col Piccolo Cafe — nella mia esperienza ho appreso che di rado si incontra qualcuno che si prodighi, anche solo come supporto morale, per far crescere o sbocciare un ‘talento’ senza un qualche interesse attivo. Nel mio caso, il loro sostegno e interesse — nonché i loro consigli — sono stati effettivamente la molla che mi ha dato entusiasmo e fiducia, e che mi ha spinto a far passare il mio progetto dalla carta alla realizzazione. E di questo sono loro profondamente grato”.
Michele ci racconta poi di Ilaria Cerutti e della sua mostra on the go, i cui scatti in bianco e nero campeggiano sulla parete del Piccolo al 274 W 40 St — per la precisione, sui giornali d’epoca che rivestono di memoria storica le pareti dei bistrot di Michele&Co, una sorta di pelle “Piccolo Cafe” che conferisce un’identità ai locali e offre all’avventore un contesto emotivo oltre che fisico. “Ho investito un po’ di tempo a osservare via Twitter l’attività di questa ragazza e mi sono accorto che era silenziosissima ma con un forte seguito, che aveva un account attivo in cui re-twittava e posizionava sempre cose che mi piacevano ma senza mai promuovere o valorizzare se stessa. E aveva delle gallery stupende! Allora le ho scritto un tweet facendole un complimento molto diretto, ‘Sei bravissima, mi piace’ chiedendole se potevo inviarle un messaggio con un’idea che mi era venuta in mente”.
Ecco l’idea di Michele: trasferire l’arte di Ilaria dalla virtualità di un computer in Italia alla realtà del suo locale a New York. Ilaria ci confessa che il secondo tweet di Michele, dopo avergli detto che sarebbe stata felicissima di essere esposta al Piccolo, è stato “let’s do it”. E io credo che “let’s do it” rappresenti bene la benzina che muove la macchina Michele Casadei Massari.
Così come Giuseppe, Ilaria non s’improvvisa fotografa. Scatta foto da quattro anni, e da allora non ha mai smesso di studiare ed esercitarsi. Segue un corso di storytelling fotografico, ha intenzione di approfondire il ritratto ambientato sul quale ha già iniziato a lavorare con un workshop presso la Leica Akademie. Ciò che contraddistingue Ilaria è l’assoluto distacco con cui guarda a possibili ritorni che la propria arte possa generare. “Condivido semplicemente le mie foto su qualche social network, per il semplice gusto della condivisione, per confrontarmi con gli altri, per imparare, scoprire nuovi stimoli, allargare i miei orizzonti. Gli inviti alle mostre per me finora sono sempre venuti spontaneamente dall’esterno, e sono molto felice di questo, perché è una concezione che rispecchia il mio modo di vivere. Dedicarsi alle proprie passioni con serietà e impegno ma in modo libero, disinteressato e con slancio puro, fa sì che possa circolare un’energia del tutto positiva, che finora da sola sta alimentando il mio lavoro”.
Questo approccio all’arte svincolato dal profitto è perfettamente in linea con quello di Michele, il cui obbiettivo non è “di arricchire noi o lei, ma di esporla, farla conoscere, così come dovrebbe essere con tutta l’arte. L’arte non nasce con il presupposto di arricchire. E’ un’esigenza espressiva. E se ha la forza sufficiente di arrivare e toccare gli altri, quello è il vero successo. Poi se qualcuno vorrà comprare qualche fotografia noi saremo lietissimi di dare il contatto di Ilaria, ma questa iniziativa dev’essere indipendente, o meglio, questa iniziativa dipende dalla volontà di chi produce l’arte e dalla volontà di chi vuole darle uno spazio espositivo. Quindi, di fatto, è ‘dipendente’ da due intelletti — non una cosa da poco”.
Michele ci conferma che, a un certo punto, gli piacerebbe molto dare una struttura al suo mecenatismo, organizzando magari un programma per artisti attraverso un sistema di submission. “Sentirei di aver realizzato qualcosa, e che mi sarei espresso. Tutto quello che faccio, lo faccio perché sento un’esigenza espressiva incontenibile. Non riesco a inserirlo in un grafico di economie. Perché sono i miei valori e le mie passioni, che sono ‘economie morali’. Mi dispiacerebbe non poter condividere una cosa che ho approfondito tanto e in cui ho tanto creduto… È l’esigenza di raccontare, e raccontarsi, a proprio modo — un po’ come succede quando ti vesti e scegli di indossare questo capo piuttosto che un altro, oppure quando decidi di allestire la vetrina del tuo locale in un certo modo. È un racconto, e il racconto, per sua definizione, non punta alla monetizzazione, ma alla profusione e alla profondità”.
Prima di andarmene chiedo a Michele se la sua passione per l’espressione artistica — sia essa fotografica, cinematografica, culinaria — lo porterà, un giorno, ad accantonare la cucina e a trasformare il suo mecenatismo in una professione 24×7. “Faccio questo mestiere per poterli fare tutti”, mi risponde, con un’innocenza micidiale, consegnandomi una risposta che considero una massima, uno stile di vita e uno dei punti chiave del suo universo valoriale e imprenditoriale. Quando un lavoro — come l’attività di ristorazione al Piccolo, per esempio — ti permette di far sbocciare altre attività dalle quali non ti aspetti nessun ritorno finanziario, ma soltanto un appagamento emotivo, in un’ottica di accrescimento collettivo, allora beh, lavorare diventa un modo per creare bellezza. Questa si chiama poesia, commento fra me e me.
Sì, Michele Casadei Massari fa il suo mestiere di chef e imprenditore per poterli fare tutti. E in tutti, dallo chef, al Film Advisor, al produttore cinematografico, al mecenate, sembra eccellere.
Una musica, questa, che La Voce di New York è ben lieta di cantare.