Il 1989 fu chiamato “anno dei miracoli”, per gli avvenimenti che lo caratterizzarono. Qualcuno merita di essere ricordato: è vero per quanto accadde a Praga, visto che la “rivoluzione di velluto” nacque da premesse storiche e culturali speciali e si espresse con modalità piuttosto originali.
Nel sistema di potere sovietico, l’allora Cecoslovacchia rappresentava la punta del paradosso, perché, accanto ad una società vivace e ad una cultura di bellezza sconvolgente, esprimeva, con la Bulgaria, lo stato più acquiescente alla macchina della propaganda moscovita. Dopo il tentativo di autonomia della primavera del 1968, e la brutale repressione dei paesi “fratelli”, il partito era stato ripulito, i dirigenti riformatori gettati nel dimenticatoio, la società intera sottomessa a controllo e manutenzione. I dirigenti che non erano fuggiti all’estero (in Italia ospitammo il direttore della TV della primavera, Jiri Pelikan, che poi Craxi fece eleggere nella delegazione socialista al parlamento europeo) si ritrovarono degradati ai livelli più bassi della società come avrebbe ben raccontato Milan Kundera. Alexander Dubcek, il leader della primavera che, contrariamente a quanto era capitato ad Imre Nagy nel 1956 nella rivoluzione ungherese, salvò la pelle, si ritrovò a fare il giardiniere a Bratislava.
In quel clima, nel paese più impregnato di cultura europea del blocco sovietico, il dissenso si mosse con eleganza esprimendo figure nobili, come quella del futuro presidente Václav Havel, il commediografo che pubblicò il manifesto Charta 77 e si fece cinque anni di prigione per le sue idee intelligenti e liberali. L’Ungheria minava l’edificio sovietico con i suoi economisti riformatori, la Polonia con Solidarnosc e l’innovazione sindacale, i baltici con le rivendicazioni nazionali; Praga contribuiva con l’arte e la filosofia politica dei suoi intellettuali. Quando suonerà l’ora della storia, saranno questi, con gli attori del teatro di Havel, ad ispirare le mosse che porteranno alla liberazione del paese dall’armata rossa e all’elezione di Havel a presidente nel dicembre di 25 anni fa.
L’episodio finale iniziò a novembre, ma già in estate Praga comunista si era prestata a far transitare “turisti” in fuga dalla Germania comunista verso la Germania occidentale. Michael Steiner, ex ambasciatore tedesco a Roma, che all’epoca era in servizio a Praga, mi raccontò che, era settembre, i soldati comunisti che vigilavano l’ambasciata si guardarono bene dall’usare i loro kalashnikov, non capendo per chi e contro chi dovessero battersi.
Da novembre tutto andò improvvisamente veloce. Il 16 gli studenti manifestarono per la riforma degli studi. Il giorno dopo, la Giornata internazionale degli studenti vide in piazza 50.000 persone. La polizia reagì con violenza agli slogan anticomunisti, accendendo la miccia di grappoli di manifestazione che presero tutto novembre e dicembre. Adesso in piazza scendeva Il Forum Civico di Havel e centinaia di migliaia di cecoslovacchi, fino a mezzo milione in una sola volta, costringendo alle dimissioni i dirigenti del partito.
Con il nuovo anno si elesse il primo parlamento democratico dal 1946. Poi la pacifica e consensuale separazione tra Cechi e Slovacchi. Le due nazioni si sarebbero ritrovate nell’Unione Europea, a sigillo del rientro nella grande patria europea, garanzia del nuovo regime di libertà e crescita sociale ed economica. Gli Slovacchi chiameranno “Gentile” la rivoluzione di velluto. In realtà fu una rivoluzione d’acciaio inossidabile, lucida e impossibile da spezzare.