La mattina del 25 maggio scorso l’Europa era in fermento per il voto elettorale. Dalla Francia all’Olanda, dall’Inghilterra alla Germania, dall’Austria alla Spagna, tutte le nazioni attendevano con ansia e timore il responso di quelle piccole schede colorate che i cittadini avrebbero presto depositato nelle urne. Anche qui in Italia, naturalmente, c’era molta tensione, anche a causa dell’aggressiva campagna elettorale fatta soprattutto dai cosiddetti grillini, ovvero i sostenitori dell’ex comico Beppe Grillo, trasformatosi recentemente in aitante e focoso politico. “Vinceremo noi!”, aveva profetizzato nei giorni precedenti, accompagnato dai rulli di tamburo dei suoi numerosi adepti. A Roma eravamo in fermento per tutte queste cose, ma un po’ meno. Roma è sempre un po’ meno in fermento degli altri posti. Noi romani, nel corso dei secoli, ne abbiamo viste tante ma proprio tante e così abbiamo coltivato quel certo distacco che ci fa vedere le cose un po’ più da lontano, con un po’ meno di ansia e di tensione. Io voto da trent’anni anni nel mio attuale quartiere di residenza, in cima a Monte Mario, dalle cui vette si possono osservare e quasi toccare con un dito la grande cupola di San Pietro e quella del Pantheon e da dove, nelle belle giornate di sole, si intravedono in lontananza le colline dei castelli romani di Frascati e Grottaferrata.
I nostri seggi sono sistemati da sempre nella scuola Cesare Nobili di via Bitossi, alle spalle della Loyola University e della più sofisticata via Massimi dove, in un antico villino primo novecento, dimorò in passato addirittura il mitico Gandhi, di passaggio a Roma nel dicembre del 1931.
Il mio amico Giancarlo Rossi, presidente di seggio, fin dalla prima mattina piroettava leggero nel seggio di cui è presidente da tempo immemorabile. “Si, ma è l’ultima volta – mi ha detto – Poi mi trasferisco a vivere al mio paese d’origine, in Sabina. Lascio la casa ai figli e me ne vado a stare in pace tra le vigne e le partite a tresette al bar della piazza”.
La signora Ceciato, ottantasette anni, è arrivata con la sua cinquecento Fiat degli anni sessanta che sbuffa come una locomotiva a vapore e ha la carrozzeria ammaccata e traballante. L’anziana signora veste con abitini colorati un po’ demodè e ha sempre sulla testa dei deliziosi cappellini molto più eccentrici di quelli usati di solito dalla regina Elisabetta. È sempre una delle prime ad arrivare anche se, quasi sempre, deve tornare a casa perché ha dimenticato la scheda elettorale, il documento personale oppure gli occhiali per leggere bene i simboli dei partiti in gara. Nel corso della mattina è tornata al seggio ben tre volte, sempre arruffata, frettolosa, nervosa, ma in fondo simpaticissima e unica.
“Voto per Hollande”, ha detto a Giancarlo, appena arrivata a ritirare la sua scheda.
“Ma non si può votare per Hollande”, le ha risposto lui frastornato.
“Oggi si vota per l’Europa. Hollande è francese. La Francia sta in Europa. Io voto per Hollande”, ha concluso la signora, afferrando la scheda dalle mani del rassegnato presidente.
Al giornalaio di piazza Madonna del Cenacolo il signor Pasquale è andato come sempre a comprare il suo giornale. Annoiato, distante, perplesso, ha domandato: “Ma per chi si vota stavolta?”. E quando Pino il giornalaio gli ha risposto che si votava per l’Europa, allora lui ha fatto un ghigno di disapprovazione e ha detto: “Col cavolo l’Europa! Qui ognuno si fa gli affari propri. Come sempre”. E se n’è andato, tirando il guinzaglio del suo barboncino – vecchio forse più di lui – che si è subito fermato a fare i suoi bisogni sotto al primo lampione che ha incontrato. Un po’ più avanti, al baretto, una giovane coppia assonnata stava facendo colazione davanti a due cappuccini bollenti.
Si erano alzati da poco, dopo la serata del sabato passata a gozzovigliare con gli amici, e adesso si stropicciavano gli occhi, sbadigliando di tanto in tanto.
“Ma voi per chi votate?”, gli ha domandato il barista.
“Voto per chi mi pare”, ha risposto lei, aggiustandosi con un dito il mascara che gli calava infido dall’occhio sinistro, mentre il povero barista restava ammutolito e continuava ad asciugare le tazze appena uscite dalla lavastoviglie.
Intanto, all’interno del seggio, era iniziato il vero e proprio assalto alle urne. Sembrava una di quelle domeniche di luglio in cui la gente va al mare portandosi dietro di tutto, dal cocomero all’ombrellone, dalla sedia a sdraio al thermos con gli spaghetti all’amatriciana.
“Mi dà un’occhiata alla carrozzina?”, ha domandato una signora ad un ragazzo in fila insieme a lei.
“Ma mica ci sarà un bambino lì dentro!”, ha risposto lui.
“Ma certo che c’è il bambino. Se no perché le dicevo di guardare la carrozzina?” ha aggiunto lei, innervosita.
“E che ne so come le fanno adesso ‘ste carrozze? Magari so’ ultra sofisticate, con gli ammortizzatori speciali e i freni a disco. Che ne so io quanto costano questi affari?”, ha replicato il giovanotto controllando nel frattempo se il tatuaggio sul bicipite si vedeva abbastanza bene, sotto la sua canottiera colorata.
Il sacerdote della parrocchia grondava sudore come una fontanella sotto la sua tonaca vecchio stile e si allentava un po’ il colletto bianco con un dito. “Fa caldo, don Piè?”, gli ha domandato la ragazzetta dai capelli rossi che continuava implacabile a masticare il suo chewing gum.
“Sta’ zitta, Samantha, che l’ultima volta che ti ho vista in Chiesa si perde nella notte dei tempi”.
“È segno che si sta a invecchia', don Piè. Non ha visto che stavo lì il giorno che avete fatto la prima comunione di mio nipote Carletto?”.
“Ah, è vero, ora mi ricordo. Eri quella che aveva la suoneria del cellulare con la musica rock a palla”.
“Ma quale rock? Sei proprio antico, sacerdo'. Quello era punk. Puro punk. Annamo bene, annamo”.
Il signor Benito Ponzio indossava, come sempre, la sua camicia nera di lino, aveva i capelli ben sistemati con la brillantina e sotto il braccio ostentava una copia del più noto giornale di destra. “Nun te sbaglià che oggi voti a sinistra”, gli ha intimato sorridendo suo cugino Carmelo, fervente ex Lotta Continua. “Vade retro, Satana. Stammi lontano che mi inquini il voto”, ha risposto lui, tendendo subito il braccio destro in avanti.
“Guarda che il saluto romano dentro al seggio non si può fare”.
“E perché, io non so romano de’ Trastevere? E quando saluto, faccio appunto il saluto romano”, risponde lui, tronfio di soddisfazione, ottenendo subito ampi consensi da parte di un paio di signore che, scuotendo la testa bisbigliavano. “Il signore ha ragione. Quando ci stava Lui a villa Torlonia tante brutte cose non succedevano”.
“L’avete visto anche voi il museo di Villa Torlonia? – risponde la signora Necci dall’altro capo della fila – La casina delle civette è davvero splendida dopo il restauro”.
Intanto dalla stanza del voto spuntava la testa del giovane studente Giacomino che gridava: “Mamma, mi tiri la penna?”.
“Ma guarda che non serve la penna. Ti diamo noi la matita. Ahia…!”, ha fatto in tempo a rispondere l’aiutante di seggio Nicola prima che la penna lanciata dalla mamma di Giacomino gli arrivasse proprio dritta dentro l’occhio sinistro. E la giornata procedeva così, mentre le schede colorate, una dopo l’altra, scendevano dentro l’urna e la gente continuava a fare pettegolezzi, scambi di battute, punti di vista, risate e sfottò.
Durante quelle 24 ore, nessuno sapeva ancora come sarebbero andate a finire le cose, quali partiti avrebbero vinto o quali , invece, avrebbero preso sonore legnate e, in fondo, forse a nessuno gliene importava più di tanto. I romani, si sa, non si agitano mai troppo, “strascicano” i piedi lentamente, hanno il senso dell’umorismo e votano sempre per chi gli pare.