Il ragazzo si chiamava Thomas e proveniva da Hartford, nel Connecticut.
Aveva vent’anni. Era altissimo, magrissimo, lunghi capelli biondi, orecchino sul lobo sinistro, fazzoletto rosso legato intorno al collo, un po’ demodé, stile anni sessanta. Era arrivato all’hotel Modigliani insieme ai suoi genitori. Dormiva in una stanza singola, vicino al giardino, mentre i suoi alloggiavano al terzo piano.
Era piuttosto taciturno, guardingo. Tutti i giovani receptionist e anche i camerieri si erano dati molto da fare per strappargli soltanto un sorriso o, quantomeno, per interessarlo con qualche divertente argomento di conversazione.
Ma non avevano ottenuto grandi risultati finora. Lui restava sempre sulle sue, non dava confidenza a nessuno. Impenetrabile come un muro di gomma, su cui tutto inevitabilmente rimbalzava. In realtà, più che timido, sembrava assente, distante. Come se quella vacanza romana fosse stata una forzatura e la sua mente fosse rimasta altrove, sulle sponde del fiume che bagnava la sua cittadina.
Girava per Roma come in trance. Che cosa gli sarebbe rimasto negli anni a seguire? Sfocate immagini del Colosseo e di Fontana di Trevi? O forse neppure quelle? Di ritorno dalle passeggiate, si rifugiava nel salottino dell’albergo e tirava fuori un piccolo taccuino. Prendeva appunti. Pagine e pagine, una dopo l’altra, con una calligrafia minuta e contorta. Che cosa scrivesse lì sopra non era dato da sapere, anche se ogni tanto i curiosissimi dipendenti dell’hotel cercavano di sbirciare, senza successo.
Dopo cena, quando i suoi genitori dormivano, Thomas si infilava le mani nelle tasche del giaccone a quadri rossi e neri e usciva, per camminare un po’ tra le strade di Roma.
L’impressione era che camminasse per accelerare i tempi, per far passare i minuti ed arrivare prima al giorno in cui l’aereo lo avrebbe riportato indietro da quella vacanza tutt’altra che desiderata.
Tornava in genere dopo un paio di ore e, quando chiedeva la chiave della sua stanza, l’alito lasciava trapelare indubbie tracce di alcol, forse qualche birretta di troppo presa al bar di piazza Barberini.
Quella notte era di turno in portineria Andrea, il receptionist più “anziano”, che lavorava lì da sette anni e che era appena diventato padre di una bellissima bambina. Intorno alle quattro di mattina, era intento a rispondere alle mail che arrivavano dall’altra parte del mondo. Nove ore indietro di differenza nella costa ovest degli Stati Uniti, otto ore avanti in l’Australia, sette in Giappone.
La gente voleva prenotare il proprio soggiorno e faceva domande di tutti i tipi.
Quanto sono grandi esattamente le stanze, che cosa si mangia a colazione, quanto è distante la fermata della metropolitana, quali sono i nomi di battesimo dei proprietari e via dicendo. Andrea, come suo solito, cercava di fornire risposte precise e dettagliate, mettendo nelle risposte la sua innata gentilezza e la sua indubbia professionalità.
Finché non sentì quello strano rumore, proveniente dal giardino. In realtà più che un rumore sembrava un lamento. Non era continuo. A volte cresceva di picco, per poi calare improvvisamente e ricominciare qualche istante dopo.
Decise di andare a vedere. Chiuse a chiave la porta d’ingresso, sistemò sul bancone della portineria la targhetta con la scritta “Torno subito” e si diresse verso la porta del giardino. Quando aprì vide Thomas che era seduto su una delle seggioline di ferro. Aveva il viso poggiato sul tavolo di marmo e si teneva la nuca con le mani. Piangeva. Il suo era un pianto disperato, straziante. Proveniva dall’anima e metteva i brividi. Andrea si avvicinò lentamente e, quando fu dietro di lui, l’unica cosa che riuscì a fare fu quella di accarezzargli la testa, senza parlare. Thomas, allora, si girò verso di lui. Aveva gli occhi rossi, gonfi di lacrime e di sofferenza.
“Perché?”, domandò Andrea.
Ma Thomas non rispose. Allora Andrea si mise una mano in tasca e tirò fuori un fazzoletto pulito. Glielo porse. Il ragazzo si asciugò gli occhi, lentamente. Poi lo guardò.
“Mi ha lasciato. Non lo so perché”, rispose.
E iniziò a parlare. Come un fiume in piena. Come se non aspettasse altro, da giorni. Jenny era la sua fidanzata da sempre. Avevano quindici anni quando si erano scambiati il primo bacio nella palestra della scuola, in un pomeriggio primaverile. A sedici avevano fatto per la prima volta l’amore, a casa di lei, mentre i genitori erano fuori. E poi sempre insieme, per anni. Alle gite di classe, nei sabati sera insieme agli amici, in vacanza coast to coast fino in California.
E poi, e poi basta.
Un mese prima lei gli aveva detto che quella loro relazione era durata troppo, che non era possibile stare insieme così a lungo, che era sbagliato, che occorreva provare nuove esperienze, essere più aperti alla vita, al mondo. E così era partita per Londra, per uno stage di recitazione presso il London Theatre. Sembrava quel vecchio film di Woody Allen, “Manhattan”, quando la ragazzina di cui lui era innamorato, gli comunica più o meno la stessa cosa. Solo che quello non era un film. Era la sua vita. E lui era disperato e aveva pensato di farla finita.
Andrea si rimboccò le maniche della camicia e iniziò a parlare. Gli raccontò della sua vita difficile, dei rapporti con la sua prima fidanzata, delle difficoltà che aveva avuto nella vita e di un sacco di altre cose ancora. Quando arrivarono le prime luci dell’alba Thomas si era improvvisamente calmato. Nei suoi occhi adesso non c’erano più lacrime ma una nuova strana luce e sulle labbra era anche spuntato una specie di piccolo sorriso, il primo di quella travagliata vacanza romana.
“Mi sa che adesso vado a dormire”, disse, aggiungendo anche: “Grazie. Tu mi hai aiutato”.
Stava per iniziare una nuova giornata. Altri americani sarebbero arrivati in albergo e ci sarebbero state nuove storie da raccontare.