«Perché giornalisti devono sempre andare a pescare le persone peggiori e più negative da intervistare?». A sorpresa raccolgo questo sfogo da vari amici e conoscenti che vivono nella zona del Modenese e del Ferrarese, colpita dal devastante sisma dei giorni scorsi. Avevo subito telefonato per sincerarmi delle loro condizioni, per sapere come stavano, se avevano subìto danni e di che entità. Tutti con case o capannoni o posti di lavoro danneggiati. Per non parlare delle chiese e degli edifici storici, quasi tutti per terra o paurosamente crepati. Ma tutti combattivi e positivi.
Con parole diverse, il messaggio che ho raccolto è stato: «Accidenti, che botta! Ho avuto tanta paura e parecchi danni. Va bene: ora vediamo che cosa dobbiamo fare». E invece…. «Invece in televisione e sui giornali, i cronisti sono andati a pescare soltanto i “piagnoni”, quelli che si lamentano. Noi non siamo così. Ci stiamo già dando da fare». Questa reazione mi ha sorpresa. Perché, sì, in effetti dalle lunghe telecronache andate in diretta su tutti i canali e dagli articoli, il quadro che avevo raccolto prima di attaccarmi al telefono è veramente questo: i giornalisti con toni accorati e funerei che alle persone che hanno avvicinato fanno raccontare situazioni catastrofiche e senza speranza. Non è così. Gli emiliani e le genti del Nord hanno evidentemente un carattere forte. E qui, pensando anche alla rapidità con cui i friulani reagirono anni fa al “loro” terremoto, mi verrebbe il pensiero maligno e – confesso e mi pento immediatamente – un po’ razzistico di aggiungere: «A differenza di altri italiani, di altre parti d’Italia… magari del Sud».
SEMPRE DALLA PIANURA EMILIANA mi arriva un’altra sorpresa. Dei miei carissimi amici di Parma, dopo avermi dato notizie delle loro scosse sismiche, alla mia domanda ironica: «Mica avrete votato per il candidato di Beppe Grillo?» (domanda a cui mi aspettavo un “no” deciso) hanno risposto: «Sì, certo!». Sono stati in tanti: il 60 per cento dei parmigiani ha deciso di voltare pagina. Chissà se i politici della vecchia politica (di destra, di sinistra e di centro) capiranno finalmente. E mettendo insieme anche il forte astensionismo, si decideranno. Delle due, l’una: o cambiano o spariscono. O, meglio: li fanno sparire i cittadiITALIANO O INGLESE? E perché non tutti e due? Da Pierluigi Panza, giornalista del “Corriere della Sera”, apprendo della polemica in corso negli atenei del Bel Paese. Le università starebbero pensando di usare la lingua di Shakespeare (e di Facebook) per alcuni dei loro corsi. Apriti cielo! Alcuni dei luminari e dei pensatori più noti – da Tullio Gregory a Sebastiano Vassalli, da Raffaele Simone a Annamaria Testa – sono insorti. Pare che persino l’autorevole e paludata Accademia della Crusca stia raccogliendo pareri.
Eppure, qui non si tratta di abdicare e mandare in soffitta la lingua di Dante: si vuole solamente prendere atto di un dato di fatto, l’universalità dell’inglese come esperanto dell’era della globalizzazione. L’obiettivo mi pare chiaro: dare un valido strumento formativo agli studenti. Invece, tra i maître à penser e i custodi del conservatorismo si è scatenata la furia. Eppure, un tempo furono proprio gli americani a introdurre l’italiano nelle loro università. Fu Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart poi fuggito nel Nuovo Mondo, a difendere nel 1821 quella scelta che, come questa di oggi in Italia, aveva scatenato le irritazioni di alcuni puristi dell’epoca.
Da Ponte fece un bellissimo discorso, difendendo l’Italia e la sua lingua contro i pregiudizi dei borghesi d’America. Ora il suo intervento è stato ripubblicato da Lorenzo della Chà per le Edizioni Il Polifilo (pagg. 154, euro 25). Cercherò di procurarmi il testo, credo ne valga la pena.